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Logbook 31 – Bologna

Mattinata bolognese e Bologna è sempre lei, come sempre. Ti accoglie come una vecchia zia affettuosa ma anche esigente, sempre con la speranza che tu sia digiuno per dimostrarti che lei è l’unica che sa nutrirti e forse è vero.  L’ultima volta era stata a ottobre scorso per il programma con Davide Rondoni, dedicato a Pier Paolo Pasolini.

Vagabondammo per Bologna con la troupe, nei luoghi che erano familiari a Pasolini perché Bologna sa conservare memoria, nonostante tutto. Il 2000 invece era l’anno in cui era stata nominata Città Europea della Cultura e la città sentiva forte il peso di essere stata scelta per il passaggio di secolo e millennio. L’inaugurazione si tenne nell’affollatissimo salone dell’Archiginnasio, una mattina di sole. Protagonisti Fabio Roversi Monaco, allora Magnifico dell’Alma Mater, e Umberto Eco. Chi scrive svolgeva il ruolo di moderatore dell’incontro e se lo ricorda ancora bene. Vero é che i due erano il top e quindi il rispetto dei tempi – la cui garanzia è la principale responsabilità di chi modera – non fu un problema. Per inciso, mi é sempre capitato di notare come i veri grandi comunicatori non abbiano mai avuto problemi a rispettare i tempi assegnati. Un minuto erano regolarmente sessanta secondi, un’ora era sessanta minuti e si sgarrava veramente di poco. Una eccezione era Marco ma lo faceva scientemente quindi in fondo é un esempio relativo. Senza contare che, nelle occasioni in cui i tempi andavano istituzionalmente rispettati, sapeva essere anche lui di una precisione tempistica notevole.

Bologna, il nevone del ’29 della foto nella pasticceria di Via Nosadella. Per me è anche il Collegio San Luigi, dove all’ultimo piano, nella foresteria dei professori, avevo la mia camera quando dirigevo la Sede Rai dell’Emilia Romagna. Rientravo la sera, richiudendomi alle spalle l’enorme portone cinquecentesco, e mi avviavo verso l’ultimo piano sotto lo sguardo – bisogna dirlo, un po’ smorto – dei giovanissimi Principi Degli Studi che dai loro ormai secolari ritratti, nel buio dei corridoi, sorvegliavano i loro sicuramente più ignoranti ma altrettanto sicuramente più gaudenti eredi. Il più bravo del corso infatti meritava decenni fa quel ritratto ogni anno. La sera o più facilmente la notte – mentre da Piazza Maggiore percorrevi via D’Azeglio per tornare diciamo a casa – non era improbabile incrociare Lucio Dalla che usciva da casa sua in tenute improbabili ma efficaci. Una sera d’estate me lo vidi spuntare con dei bermuda gialli e una camicia in cui non era assente nessun colore concepito da mente umana. Aveva di bello la gentilezza per tutti, quella gentilezza di chi sa che il successo è una conquista.

Poco lontano ci si ritrova nel sorriso delle tre generazioni di Cesàri, rifugio sicuro del cibo e del bere, dove, se si ha un buon orecchio capita ancora di cogliere l’eco lontana dei migliaia di Gaudeamus igitur, celebrati sotto quelle volte. Oppure, poco lontano, l’Osteria della Dame, inventata cinquant’anni fa da Fra Michele Casali e da Francesco Guccini, riaperta per pochi mesi, giusto il tempo per una visita degli allora Capitani Reggenti sammarinesi che non riuscirono a resistere alla tentazione di impugnare delle chitarre abbandonate lì e improvvisare qualche minuto su un palco che è storia della musica. Era una visita privata, molto privata – saremmo stati al massimo una mezza dozzina – ma il responsabile del cerimoniale rischiò comunque un collasso. A San Domenico, accanto al Tribunale,  Fra Michele – tornando a lui – aveva il suo angolo in fondo alla navata di destra, poco dopo il monumento al Santo con il piccolo San Procolo del Buonarroti. In quella piccola cappella Michele pregava, ascoltava, consigliava, organizzava, immaginava, ricordava.

Bologna sono le osterie dove non era raro trovare la sera tardi il Sindaco giocare a carte con il Magnifico, entrambi poco disposti a perdere. Giorgio Guazzaloca, fra quelli che mi è capitato di incontrare, fu un grandissimo sindaco, come peraltro a Roma Gigi Petroselli. Avevo appena preso l’incarico a Bologna e c’erano le elezioni, da sempre una formalità perché l’esito era scontato. Mi ero affacciato a Piazza Maggiore per il comizio di chiusura del Pci, al solito sicuro di vincere, e sentii dire uno dei comizianti dal palco che non si poteva eleggere un sindaco che aveva smesso di studiare a quindici anni per andare a lavorare nella macelleria del babbo. Restai molto perplesso e la cosa fece rumore anche se della sua poca scolarizzazione Guazzaloca non se ne faceva il minimo problema. Proprio lui, già sindaco ormai da tempo, una sera mi raccontò che il giorno successivo al comizio – si votava la domenica successiva – prese un taxi e il tassista gli sparò subito in faccia, invece di salutarlo, un “Lei a quindici? Io a quattordici!”. Fu lì, concluse Guazzaloca, che ho capito che a Bologna avrei vinto. Bologna e le serate con Luca in una trattoria di cui non ricordo neppure più il nome con i giovani camerieri che erano praticamente uno show del sabato sera, dietro i Servi, in via San Pietro. E le bellissime imprevedibili case antiche del centro, visitate con Pepino Poggi, anima bolognese doc, mentre ero in cerca di quella in affitto per un trasferimento familiare definitivo che poi non ci fu mai. All’ombra delle Due Torri, La Strada del Jazz di Paolo Alberti, altro bolognese doc che sembra considerare l’intera città – come tutti i veri bolognesi – la sua dimora personale il cui confine esterno sono i viali, la propria grande dimora in cui accogliere con estremo piacere tutti i suoi ospiti.

Bologna è Bologna, non c’è nulla da fare. Certo il clima, si dice. E allora diciamocelo una volta per tutte: ma chi se ne frega del clima, se sei a Bologna.

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