ll treno sta uscendo da Termini, con vista in corsa non sui cipressi di Bolgheri alti e schietti ma su quelli del Verano, l’alberi pizzuti di Giuseppe Gioacchino Belli. Roma è Roma e il Belli nonostante il tempo passato è sempre un’ottima chiave per capire questa città o almeno per provarci. Ci sono nato in questa città. La conosco e se, per di più, fai il giornalista finisci per conoscerne – come accade in qualsiasi città – ogni pietra e i personaggi che la affollano e che si ripetono nel tempo.
Non è difficile trovare ancora oggi nelle sue strade e nei suoi bar, dopo sessant’anni esatti, il Bruno Cortona del Sorpasso. Magari la sua Aurelia B24, quella invece è molto più difficile vederla e farebbe girare molte teste ma i Bruno Cortona, i Sergio Benvenuti del Verdone di Borotalco, persino i Nando Mericoni di Alberto Sordi che pure faranno settant’anni il prossimo anno, sono sempre lì mentre vanno a aggiungersi a loro, per ripetersi all’infinito, altri nuovi vecchi personaggi. Basti per tutti la geniale Monica di Paola Cortellesi in Come un gatto in tangenziale, dritta dritta pienamente e legittimamente nella scia della Magnani e della Vitti. La Cortellesi, tanto per capirsi, è una attrice che sa recitare anche di spalle, il che è il top come insegnava Eduardo. Vestiti diversi, auto e moto diverse – certo – ma le maschere restano all’infinito, aumentando semmai ma mai scomparendo.
Roma è lì, con il suo purtroppo solito ciarpame quotidiano – i suoi orologi stradali fermi, i suoi cassonetti circondati di spazzatura, le sue rabbie e la solita mercanzia romana di sempre, adesso anche con la new entry dei monopattini (taciti e invisibili, come si canta dei sommergibili) – e di contro le sue testimonianze millenarie, dieci al metro. Il cinismo romano è sempre quello di una città che ha visto tutto, ha conosciuto tutti, che sa, per antica tradizione di servitù e frequentazioni, i palazzi e le camere del potere, un potere che lei vede e ha visto in biancheria intima, peraltro non sempre pulitissima, sotto gli ori e i broccati.
Roma è il rumore ormai selvaggio e cronico, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Sono i fiumi di persone che si muovono tutti contemporaneamente per andare al lavoro o all’ultimo locale di grido che durerà quanto appunto il gatto nella tangenziale di cui sopra. Roma è così. Non è la commedia tragica che caratterizza Napoli ma semmai Roma è più una infinita tragedia comica che sopravvive a se stessa cercando di coprire i suoi limiti con qualche straccio e qualche scusa, sempre nella speranza di diventare seria a buon prezzo.
Non a caso, un altro che la aveva conosciuta bene era Giuseppe Garibaldi. Quando ritornò nella Roma che aveva lasciato, fuggendo, repubblicana e in fiamme, e che ora era invece capitale del Regno d’Italia fu un trionfo. I romani lo accolsero in folla con grandi manifestazioni di giubilo – forse aiutate anche da qualche senso di colpa per come si era conclusa l’avventura al Gianicolo e dintorni con la fuga, la morte della moglie eccetera, per lui di non buonissima memoria – e lo accompagnarono in trionfo al suo albergo, che era esattamente di fronte a Palazzo Chigi, in Piazza Colonna. Garibaldi salì nella sua stanza mentre la folla restava sotto la sua finestra, acclamando e rumoreggiando, finché lui aprì il balcone e si affacciò. Si fece subito silenzio perché stava per parlare il Generale. Lui disse soltanto “Romani, siate seri” poi richiuse il balcone e se ne andò a dormire.