Logbook 83 – Ma chi se ne frega dell’Afghanistan?

Nel silenzio del mondo, riprende corpo invisibile la tragedia afgana, dove le donne sono al solito le vittime designate. Torna quindi obbligatorio il burqa, simbolo di questa oppressione. Le scuole intanto si stanno chiudendo lentamente per loro e tutti i diritti acquisiti in questi venti anni stanno rapidamente scomparendo.

Chi ha avuto la ventura di essere stato in Afghanistan, nel periodo ISAF, sa che non era raro vedere bambine afgane letteralmente ipnotizzate per decine di minuti alla vista di ufficiali donne – armate! – che davano disposizione ai propri soldati – uomini! – i quali a loro volta ubbidivano prontamente.

Lo sguardo di quelle bambine, se ti capitava di incrociarlo, ti entrava nell’anima. Era come se avessero visto dei marziani sbarcare o degli alberi camminare. Intanto però capivano che una altra realtà è possibile. Quegli sguardi saranno forse – è realistico sperarlo – determinanti per il futuro dell’Afghanistan.

Quasi venti anni di presenza occidentale hanno seminato molto in molte direzioni, anche se il finale non è stato come ci si augurava e come avrebbero meritato gli afgani. Si era lavorato duramente per la condizione delle donne anche in una intera missione, nata dalla collaborazione fra SMD e Direzione Generale Rai e che seguii personalmente. Abbiamo girato per l’Afghanistan occidentale, al confine con l’Iran, incontrando decine di donne, nelle campagne come nelle città. Donne semplici ma piene di dignità e di cultura, nei villaggi dell’interno, oppure studentesse e professioniste ai vertici della loro professione nelle città.

Oggi tutto questo è finito? Forse, ma ci può stare anche qualche dubbio perchè quegli anni hanno costruito almeno tre generazioni di donne e di uomini afgani e questo conta parecchio. Le persone in quel periodo si erano abituate ad avere una stampa libera, a poter sentire la musica – con i talebani si andava e si va in galera se si sente la musica – eccetera eccetera. Difficile ritornare – e soprattutto restare – in una gabbia feroce dopo che per vent’anni hai provato una parvenza di libertà. Questione di tempo, come sempre.

Ricordo bene, a proposito di carceri, il carcere femminile di Herat. Era l’estate del 2012, se non ricordo male e fu l’ultima delle mie missioni in Afghanistan. A settembre sarei poi andato in Kosovo per un’altra simile attività e infine a ottobre arrivò, sempre dalla Rai, l’incarico della direzione generale della Radiotelevisione di Stato di San Marino. Il carcere femminile era stato appena costruito. grazie all’intervento italiano che aveva la responsabilità dell’Afghanistan occidentale. Strutture nuove, moderne, piene di luce e di donne ma la cosa che più colpiva era l’aria di famiglia, di comunità delle detenute. Non eravamo stati molti a entrare, forse una mezza dozzina. Chi era armato, lasciava le armi all’ingresso e tutte le solite procedure venivano svolte con molta attenzione da parte degli agenti. Passammo una intera giornata lì dentro e le straordinarie immagini che Stefano Belardini raccolse con la sua telecamera sono tumulate in qualche archivio Rai. Gli interpreti ci dicevano che moltissime di quelle donne preferivano quel carcere alla propria casa e guardando le loro espressioni mentre parlavano, la cosa era più che credibile.

In queste ore, in questi giorni, le donne afgane si battono contro il burqa – anche quella una prigione sia pure di tela – e il mondo lo sa ma preferisce non saperlo. Ma chi se ne frega dell’Afghanistan.

Una opinione su "Logbook 83 – Ma chi se ne frega dell’Afghanistan?"

  1. Come hai spesso detto, Carlo, quando i riflettori si spengono su una guerra, o una tragedia umana, chi continua a viverla viene lasciato solo in essa. Ma certamente noi non dimentichiamo.
    Ma l’Afghanistan, dopo vent’anni di scambio con gli occidentali, non e’ piu’ lo stesso. i Talebani faticano a contenerlo. Le donne manifestano senza paura, a Kabul. Ed e’ solo questione di tempo, per una seconda liberazione.

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