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Burrasche. Diario di bordo 2022

𝐁𝐮𝐫𝐫𝐚𝐬𝐜𝐡𝐞. 𝐃𝐢𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐛𝐨𝐫𝐝𝐨 𝟐𝟎𝟐𝟐 è disponibile nelle librerie e negli store online.

“Il 2022 merita un diario come quello di Carlo Romeo. È un anno apparentemente di passaggio, quello da una pandemia a una guerra, ma così decisivo che rimarrà sicuramente nella storia di questo secolo.” Paolo Mieli

In queste pagine, le onde del mare si accavallano a quelle dei giornali quotidiani in un intreccio tra presente e passato.

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Logbook 296 – Il cavaliere oscuro

E così il 2 giugno l’Ambasciatore italiano a San Marino Sergio Mercuri ha consegnato al sottoscritto onorificenza e diploma firmato da Sergio Mattarella che lo qualificano Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica. La cosa non è che sia epocale o che cambi di un milionesimo il corso della Storia, però – almeno a me – fa piacere comunque e fa piacere per un paio di ragioni.

La prima è stata la sorpresa. Non me lo aspettavo perchè sono stato educato fin da bambino in famiglia che gli onori sollecitati dai beneficiati valgono un po’ meno di quelli che arrivano da altri spontaneamente. Non me lo aspettavo insomma anche perchè i miei coetanei sono ormai già tutti Commendatori e Grandi Ufficiali quindi io arrivo un po’ tardi però arrivo. Il fatto poi è che la motivazione è un bilancio di una vita e fa appunto piacere che il tuo Paese riconosca in qualche modo quel che hai fatto in cinquant’anni di lavoro nei media pubblici e privati.

Altro aspetto è la presenza e l’affetto di molti amici che hanno partecipato alla cerimonia che si è svolta prima dell’apertura del ricevimento nel bellissimo giardino dell’Ambasciata. È stato un momento condiviso – e in qualche parte emotivamente coinvolgente – perchè ti vengono in mente tante storie, tante situazioni, che hanno costruito una storia non sempre riconosciuta sul momento. I giornalisti delle tv private non venivano riconosciuti dall’Ordine e condannati a un precariato addirittura ventennale, come è capitato a chi scrive. Sandro Piccinini racconta sorridendo – oggi, non allora – di quando doveva fare le sue telecronache dalle terrazze che davano sullo stadio o addirittura arrampicato su un albero perchè le testate delle tv e delle radio locali non avevano l’accesso negli stadi in tribuna stampa. “Il mucchio selvaggio”, un bel libro firmato proprio da Sandro e da Giancarlo Dotto, quei tempi li ricorda bene.

Vengono in mente però anche i momenti in cui si agiva su richiesta e in sintonia con i Ministeri competenti e allora era la Bosnia, il Darfur, il Libano, l’Afghanistan, il Burkina, la Mauritania, lavorando a stretto contatto con soldati e diplomatici italiani, come advisor più spesso e qualche altra volta come giornalista. Insomma sono tanti i momenti che fanno da bilancio e non a caso, quando l’Ambasciatore Mercuri mi ha chiesto di dire due parole, mi è sembrato giusto far notare come è un peccato che le regole del gioco della vita le capisci troppo tardi – prima cosa – e – seconda cosa – non puoi insegnarle ai giovani perchè funzionano solo se le impari direttamente sulla tua pelle.

Così, che il tuo Paese, che una persona come il Presidente Mattarella, ti dicano in sintesi e in concreto che comunque hai fatto un buon lavoro nel corso della tua vita (perchè l’Ordine al Merito della Repubblica, la più alta onorificenza italiana, questo rappresenta) ha un suo peso, piccolo o grande che sia. Ovviamente pulvis et umbra sempre e comunque ma nel frattempo, giusto godersi per quanto possibile quel che ogni giorno può arrivare.

Logbook 295 – Retrobotteghe Oscure

Rileggo la biografia di Pietro Secchia che Miriam Mafai pubblicò nel 1984. Scritto benissimo da una autrice che le fonti le conosceva bene e che sapeva quel che si poteva dire e quello che era meglio non dire. Viene fuori un Pci e diverse generazioni di comunisti per i quali la Mosca di allora, Giuseppe Stalin compreso, era punto di riferimento esistenziale.

Il titolo richiama a un uomo che sognava la lotta armata o forse meglio la rivoluzione, una rivoluzione impossibile dopo il 1944 perchè a Yalta il mondo occidentale era già stato spartito fra le grandi potenze. L’Italia era in ginocchio, la Resistenza divisa e contesa, forse soggetta a episodi inenarrabili come sarebbe stata la guerra civile locale che insanguinò alcune zone del Paese nell’immediato dopoguerra.

Secchia è l’eterno numero due. Non a caso il suo soprannome ufficiale è Botte, che i suoi compagni derivavano da Bottecchia, l’eterno secondo del ciclismo italiano. Togliatti era sempre avanti di un passo o due rispetto a lui e agli altri. A guerra finita, guerra che Togliatti aveva trascorso a Mosca mentre Secchia, Longo e gli altri rischiavano la pelle, Togliatti fu il garante di Stalin che l’Italia si sarebbe adeguata all’accordo e che quindi eventuali insurrezioni – il sogno di Secchia e non solo suo – erano da scoraggiare in tutti i modi. 

La storia finì malissimo. Il braccio destro di Secchia, Giulio Seniga, sparì con una montagna di soldi del partito e una serie di documenti molto importanti. Lo scandalo distrusse Pietro Secchia, catapultandolo dal banco degli accusatori – che aveva assiduamente e ferocemente frequentato – a quello degli accusati con un linciaggio che non escluse neppure la vita intima. 

Il Pci era questo, era anche questo. Qualche giorno fa qualcuno ricordava una altra  storia emblematica. Come noto le sedute parlamentari sono pubbliche da sempre. Nel 1976 quando Marco entrò in Parlamento con Mellini, Adele e Emma, una delle prime cose che fece fu di collegare a Radio Radicale la Radio Aula che serviva negli uffici ai deputati per seguire il dibattito in corso. 

I primi collegamenti furono molto precari ma nel tempo migliorarono e anche il segnale divenne più forte fino a coprire tutta Italia. Divenne presidente della Camera Nilde Iotti, oggi beatificata dimenticando forse alcuni aspetti non marginali della persona come l’episodio che segue. La Iotti si inventò infatti un marchingegno che dalla presidenza, quando parlavano in aula i radicali, isolava il microfono impedendone la trasmissione via radio, in modo che si potessero sentire tutti gli interventi tranne quelli radicali. 

Erano i tempi dell’ostruzionismo in cui impediva ai parlamentari di bere un cappuccino o di leggere appunti, anche se gli interventi duravano fino a diciotto ore, come quello record di Marco Boato. Il giochetto del pulsante durò finchè Marco Pannella se ne accorse e armò un tale casino che la Iotti dovette fare una poco dignitosissima marcia indietro. 

Piccole cose, certo. Veramente piccole ma che denotavano una mentalità, una cultura. Si potrebbe magari parlare anche di come venne trattato dal Pci il figlio disabile di Togliatti o quella di Ennio Flaiano, anche lei disabile, ma quella è ancora un’altra storia e non di quelle belle quindi meglio chiuderla qui.

Logbook 294 – Manuela

Era il 1987 e Manuela aveva vent’anni. Ci colpì subito – sia a Sandro che a me – durante il casting, la sua carica di allegria e la sua naturalezza davanti alla telecamera. Eravamo giovani noi due ma ce la tiravamo già da vecchi e navigati televisivi mentre mettevamo su dal nulla una avventura come un tg diverso da tutti gli altri. Avevamo già trovato due redattori giovanissimi, Davide Coletta e Fabio Caressa, diciottenni o poco più, che si vedeva subito avevano stoffa e voglia di fare. 

Anche i due conduttori del Tg che sarebbe nato di lì a poco li avevamo già scelti. Uno era Mauro che usciva dal Secolo d’Italia (bravissimo perchè la scuola del quotidiano missino, giornalisticamente parlando, era buona) e Paola, giovanissima anche lei. Sandro e io che gestivamo il TG completavamo il quadro. In sintesi quattro gatti ma tosti. Non avevamo immagini, non avevamo notizie se non il Televideo, non avevamo nulla, cosi ci inventammo il conduttore con due commentatori ai lati, Sandro per il calcio e chi scrive per tutto l’universo creato, come lo chiamava Andrea Camilleri. Erano i primi passi e Manuela c’era, alla grande e a tutto campo.

Quello che era già evidente in lei era la sua incredibile capacità di saltare dalla cronaca allo sport alla politica alla conduzione, senza la minima difficoltà e garantendo sempre il massimo. A questo si aggiungeva anche una enorme voglia di imparare, di fare, sempre con un suo senso dell’umorismo travolgente. Riusciva a fare ridere in un attimo persino me, cosa che a quei tempi non era facile.

E così, insomma, sono contento che oggi lei finalmente veda riconosciuto in qualche modo dalla sua azienda quello che merita. Non soltanto come professionista ma come la donna che é, intelligente, innamorata della vita e del suo mestiere, capace di sorridere sempre e comunque anche nei momenti più difficili. Quella Teleroma 56 nel frattempo non esiste più ma è diventata “storica”, aggettivo consueto e allora inimmaginabile quando viene citata.

Poi Sandro si fermò a Mediaset e divenne il telecronista e il conduttore che cambiava il modo di farlo, senza però lasciarsi mai travolgere dal gorgo pericoloso della tv. Il suo “Controcampo” resta magistrale nell’offerta televisiva italiana. Mauro Mazza andò in Rai mentre Paola Rivetta andò al TG5, Anche Manuela andò via e arrivarono Ada Pagliarulo, Antonello De Fortuna, Gaia Tortora, Sergio Gamberale, Paolo Stella, Andreina Camilleri, Francesca Loquenzi e tanti altri mentre Giancarlo Dotto, Massimo Caviglia e Stefano Disegni e ancora altri diventavano commentatori per noi. Scoprimmo per caso che Daniele Formica era  uno dei massimi esperti di F1 in Italia e gli proponemmo di commentare ogni lunedì il Gran Premio (ovviamente gratis perchè di risorse non ce n’erano) e lui accettò con entusiasmo, felice di poter parlare della cosa che lo appassionava di più da sempre. 

Bei tempi e così oggi, se incrocio Manuela Moreno in video, mi dico che è proprio brava, che eravamo tutti proprio bravi, anche se non ce ne rendevamo conto per niente. Non è storicamente e geneticamente specialità della Rai valorizzare le sue migliori risorse interne – potrei facilmente tenere una conferenza di un’ora su questo – ma spero proprio per tutti (e soprattutto per il pubblico) che, una volta tanto, Manuela continui a rappresentare una eccezione.

Logbook 293 – Quando il pane è cattivo

In estrema sintesi il 40% degli aventi diritto non è andato a votare. A ciò si dovrebbero aggiungere per correttezza schede bianche e nulle per avere un quadro politico corretto. Ovviamente sia i partiti – tutti i partiti – sia i media – quasi tutti i media – glissano sull’argomento, accreditando percentuali false e falsate. Se infatti si dice che un candidato ha preso il 51% dei voti e non si chiarisce che è sul 60% degli aventi diritto, sarebbe opportuno definire la cosa una sorta di truffa, visto che il 51% del 60% fa poco oltre il 30% degli aventi diritto. Ne consegue che il 70% non si è sentito rappresentato da quel candidato.

E qui scatta la solita lagna, come la definirebbe Giuliano Ferrara, del “problemi loro”, del “gli assenti hanno sempre torto” e via di seguito. Ma quando le percentuali sono di questo genere, in realtà la democrazia rappresentativa stessa è già saltata per aria e gli eletti rappresentano solo chi li ha candidati. In realtà l’allontanamento dalle urne comincia a configurarsi come un vero e proprio “sciopero del voto”, come lo definì negli anni ‘80 Marco Pannella, che ne fece una controcampagna elettorale perchè proprio di sciopero si tratta. È evidente che nei palazzi e nei salotti di potere, l’astensionismo è un dato che non preoccupa ma alla fin fine fa comodo perchè la linea è quella del “meno siamo meglio stiamo”. Linea furba ma non intelligente – caratteristica peraltro della attuale politica italiana – che, come tutte le furbate, farà alla lunga parecchi danni.

Non c’è alcun dubbio che il voto e il suffragio universale siano stati rivoluzionari e che rappresentino il pilastro della democrazia. Ma sono decenni che gli elettori in Italia non scelgono chi li rappresenta, nonostante questo non sia costituzionale. Anche questo è causa non marginale del non voto insieme a altri vari fattori di fatto antidemocratici. Certo, il voto è come il pane, necessario per vivere. Ma se la metà dei clienti del forno non compra più il pane da lui, il fornaio siamo proprio sicuri che non si debba fare qualche domanda?

Logbook 292 – Quando le foto erano foto

Dino’s Dark Room. Il titolo è bello per la storia raccontata da Corrado Rizza con un docufilm che sarà a Roma dall’inizio di giugno. Il Dino del titolo è Dino Pedriali, un fotografo geniale e discreto che si sentirebbe molto imbarazzato a vedersi dalla parte sbagliata dell’obiettivo. 

Romano – monteverdino, come era diventato in fondo Pasolini – è scomparso qualche anno fa e sentire evocata la sua foto più famosa mi riporta improvvisamente indietro e di molto nel tempo. Saremo a metà anni 80 perchè nel ricordo Teleroma 56 è ancora alla Balduina, non più a casa di Bruno Zevi, non ancora nella assurda gigantesca location di Fiano Romano. Pedriali venne in studio quella sera per una lunga intervista televisiva e mi resta, dopo tanto tempo, la sensazione di un artista dell’immagine e di una persona attenta, sensibile, che raccontò una storia di amicizia e di lavoro con Pier Paolo Pasolini.

Eravamo nello studio più piccolo della tv e lui parlò anche di quella foto che fece il giro del mondo, diventata il ritratto di Pasolini per eccellenza. Raccontava – se non ricordo male ma non mi pare – che Pasolini era nella sua cucina di Sabaudia e stava scrivendo a macchina, seduto al tavolo dove avevano mangiato e che era stato da poco sparecchiato. 

Pasolini – raccontò – non aveva molta voglia in quel momento di essere fotografato perchè stava lavorando ma Prediali era insistente. Pasolini, smise di scrivere quel che stava scrivendo, alzò gli occhi dalla Olivetti e assunse quella posa quasi provocatoria nei confronti del fotografo.

Effettivamente l’espressione provocatoria la si legge bene a cercarla, una espressione che ci sta perché era nel personaggio per natura e per intelligenza. Dino Pedriali raccontò quella sera che quello scatto era stato uno scatto quasi casuale come capita regolarmente per le grandi fotografie che restano e dove spesso i loro autori si accorgono solo dopo di cosa hanno fatto. 

Pasolini in quel momento insomma vide il fotografo non la macchina fotografica così come – in un’altra foto storica di cui abbiamo già parlato – Churchill vide solo il fatto che Yousuf Karsh per fare quella sua foto ormai storica – dove la volontà di non accettare nessuna sconfitta risultò evidente – gli sottrasse il suo sigaro. “The Roaring Lion”, venne poi notoriamente chiamata quella foto dai giornali anche se, in quel momento, il leone in realtà stava ruggendo principalmente perchè il fotografo lo aveva lasciato senza il suo sigaro.