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Logbook 256 – Il Paese di Pulcinella
Spettacolo nello spettacolo, la vicenda del Teatro San Carlo esce da Napoli per girare sui giornali di tutto il mondo. In sintesi, una legge in realtà un po’ peciona che qualcuno pensava avrebbe dovuto risolvere in qualche modo il problema della rimozione dell’amministratore delegato della Rai. Quel qualcuno però non aveva considerato tutta una serie di aspetti che il tribunale invece ha risolto, rimettendo al suo posto chi quella legge avrebbe voluto rimuovere per la necessità di liberare la poltrona, altrimenti a quanto sembrava l’altro da Roma, come si dice in questi casi, non schiodava.
Ho incontrato una sola volta il personaggio in questione, pochi mesi prima che io lasciassi l’azienda. L’incontro con l’Ad fu inutile e poco piacevole – sospetto per entrambi e non solo per me – ma grazie dal cielo fu breve. Venni tramortito da una serie di banalità aziendali imbarazzanti e di raccomandazioni di fatto esilaranti mentre delle problematiche della consociata di cui avevo la responsabilità era evidente gli interessasse meno di zero.
Uscii dal settimo piano chiedendomi se il mio interlocutore avesse chiaro dove era finito. Sarei dovuto andare in pensione pochi mesi dopo ma l’azienda mi chiese di restare ancora per risolvere alcuni problemi interni che, non essendo ancora delle emergenze gravi, non era in grado di risolvere. Restai un paio di mesi e non lo vidi mai più.
Qualche giorno prima di lasciare l’incarico, reputai comunque opportuno e doveroso scrivergli per ringraziare lui e, tramite lui, tutta l’azienda e tutto il personale con cui ero convissuto per oltre vent’anni e che lasciavo, dopo onorata carriera, da top manager. Una risposta – anche solo formale o di cortesia – può essere sia volata via nel vento, come tutte le migliori risposte, ma, allo stato dei fatti e per quel che vale nel suo piccolo, non risulta pervenuta. Il che è bello e istruttivo, per citare il vecchio grande Giovannino.
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Logbook 255 – Genova per noi
Dispiace non essere a Genova in questi giorni. Il Salone Nautico lo ho frequentato a lungo negli anni passati. Un capitolo di Boatpeople è dedicato tutto al Salone genovese e ricordo che mi divertii moltissimo mentre lo scrivevo. Poi, quando la crisi ha picchiato duro fra le barche sospese nei corridoi del Salone o all’ormeggio in attesa di visitatori che non arrivavano, la voglia è un po’ passata con un velo di malinconia. Le cose sono quindi tornate a essere come dovevano e il Salone è tornato a fare il pienone. Insomma, quest’anno a poterlo fare, ci sarei andato volentieri.
Sono tempi infatti in cui la nautica italiana riprende con forza e Genova ormai è a un passo dallo scavalcare Francoforte, con cui è sempre stata in competizione come miglior Salone mentre in Italia da Venezia a Napoli si rincorrono altri Saloni significativi che mettono le barche al centro degli eventi. Sono peraltro ormai due anni che qualsiasi cosa galleggi si vende a peso d’oro, dopo anni di stasi, e c’è chi sostiene che le epidemie abbiano fatto scoprire e riscoprire una vacanza fra pochi.
Può essere, ma quello che realmente non può essere riguarda un Paese praticamente immerso nel Mediterraneo, che ha oltre ottomila chilometri di coste, una tradizione marinara di tremila anni e via di seguito e tuttavia non non abbia il mare inchiodato al centro della vita quotidiana, nella politica, nella cultura, nell’economia. Continuiamo a mandare su gomma container mentre sarebbe molto più semplice e sicuro valorizzare le arterie del mare, che una politica demenziale ha devastato. Certo, se a Torino invece di fabbricare auto e camion si fossero fabbricate navi, la cosa sarebbe forse andata diversamente ma si tratta di spazi che il mondo del mare ha ceduto o non ha saputo difendere.
Genova per il diporto può fare molto. Le industrie italiane sono il top della cantieristica di lusso, artigianato di altissimo livello e quando l’artigianato raggiunge quei livelli, non esiste roba di serie che possa competere. Il Ministero del Mare è certamente una buona cosa ma non basta e non può essere valutato se non da futuri fatti concreti e positivi. La prossima Coppa America potrebbe aiutare, se magari i veicoli tornassero a somigliare a delle barche. Soprattutto però a determinare il vero cambiamento sono e saranno sempre le associazioni, i circoli e tutto quel mondo, quelle persone che vivono ogni giorno a contatto con il mare per lavoro o per il piacere di viverlo.
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Logbook 254 – Complindietro
Luigi ha deciso che questo suo compleanno – il trantaduesimo – non sarà un compleanno ma un Complindietro (la maiuscola è mia). Gli chiedo che vuol dire e lui dice che preferisce un compleanno che si riavvolge indietro. Dietro quel che dice – con quella sua intelligenza atipica, secondo la migliore allieva dI Giovanni Bollea – c’è sempre una ragione, un retropensiero. Lo ricordo piccolo – avrà avuto cinque anni – mentre fissava il fuoco a vista della grande stufa dello storico Albergo Italia, lassù in alto sulla linea di confine che divide la Valle d’Aosta dal Vallese. Lo guardò a lungo poi mi comunicò pensieroso che “il fuoco è come la musica” e io lì per lì non capivo. Poi, a pensarci bene, il contesto si chiarisce e in effetti se vuoi spiegare la musica a una persona sorda, puoi provare a fargli vedere il gioco armonico delle fiamme in un camino e magari funziona.
La musica per lui è sempre stata importante. La vista nei primi mesi di vita gli è sempre servita a poco, non potendo neppure girare la testa da un lato o dall’altro e allora si andava di interi complessi sistemi di carillon sospesi sulla sua culla, nei mesi del Gemelli. I primi due anni di vita peraltro consideravo il Gemelli una sorta di casa, vista la frequenza con cui mi ritrovavo per andare a trovare madre e figlio all’undicesimo piano, quello del leggendario Professor Di Rocco, che della patologia di Luigi era uno dei massimi esperti. La musica lo accompagna da sempre e il suo orecchio musicale è letteralmente straordinario, provare per credere.
Tornando alle sue uscite, quando la mamma comunicò che doveva fare una mammografia, lui rivendicò il suo diritto di fare una figliografia. Oggettivamente in tempi di pari opportunità trovai difficile rispondergli. Comunque Giancarlo, oltre a essere fra le cinque migliori penne del giornalismo italiano sia che parli di calcio o di altro, è da sempre – visto che lo ha visto nascere – il principale estimatore di Luigi come destrutturatore della parola. Mi affretto quindi a avvisarlo sulla questione del Complindietro e lui ne rimane affascinato. Un compleanno che celebra – “ravvolgendoli” come appunto specifica un Luigi in versione moviola – gli anni passati e non quelli a venire, lo affascina e non è facile affascinare uno come lui che ha vissuto, fra le tante vite, una vita accanto a Carmelo Bene. Riavvolgiamoli pure questi anni, Giancarlo, perchè in fondo meritano. Diamo retta a Luigi.
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Logbook 253 – La capacità di reagire
Francamente, una conferenza stampa che non prevede le domande dei giornalisti oltre a essere una contraddizione in termini è anche un grande errore politico. Il circondarsi di consenso fasullo, la paura di affrontare altre versione della realtà, il disprezzare una stampa che comunque comunica con il Paese, dividere quel mondo in servi o nemici e tanto altro ancora, sembra incredibile non provochi reazioni o quanto meno indignazione.
Specchio dei tempi, sintomo di una cultura e di una democrazia malata mentre la gente è distratta e diffidente. Teme da sempre il potere, molta parte di questa società e riaffiorano le madri cui Pasolini dedica una delle poesie più feroci della letteratura italiana. La classe politica – non prendiamoci in giro con destre e sinistre, per cortesia – vive di pancia e parla alle pance, condizionata da emotività quotidiane e sondaggi, sempre con l’occhio sull’unica bussola rimasta, quella della prossima scadenza elettorale e poi della prossima e poi della prossima ancora, in una campagna elettorale cronica e parecchio squallida.
Forse sarebbe più semplice, tornando alle conferenze stampa che non sono conferenze stampa, se i giornalisti non partecipassero, quanto meno per una forma di dignità e di rispetto per il proprio lavoro e per le responsabilità nei confronti del loro pubblico. Ci vuole arroganza per zittire la stampa ma ci vuole anche molto coraggio a reagire, a non accettarla quella arroganza che comunque si rivelerà di fatto miope.
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Logbook 252 – Strade
L’ultimo dei teatri di guerra – ormai oltre dieci anni fa – è stato l’Afghanistan, dove (nella collaborazione fra la Direzione Generale della Rai e il Governo italiano) andai come advisor ISAF in diverse missioni, alcune delle quali meritarono persino – lasciandoci letteralmente stupefatti – formali apprezzamenti da parte di americani e inglesi, non esattamente generosi quando si tratta di queste cose. Tutti i luoghi del genere dove ti è capitato di capitare, ti restano inchiodati nel cuore e nella memoria. Facce, storie, immagini che gli occhi fotografano e la mente archivia.
Odori. Impossibile dire quanto siano importanti quegli odori che nessuna telecamera, nessuna macchina fotografica può raccogliere. Odori di gomma bruciata, di benzina, di esplosivi, di decomposizione che prende alla gola, quell’odore che avverti fortissimo nei campi o nelle kebaa africane mentre giri fra una baracca e l’altra. Le mosche e il caldo africani, i mezzi guanti di lana degli snipers nella neve di un capodanno sul fronte serbo – croato, i colpi di kalashnikov o quelli di pistola che segnano il territorio nella notte libanese.
E poi gli uomini e le donne con le mimetiche con cui ti abitui a vivere fino a diventare in parte, in piccolissima parte, parte di loro. Aiuta certo in questo contesto il non dover fare il giornalista perchè l’advisor è una risorsa interna – come le Riserve Selezionate della Legge Marconi – e quindi la diffidenza dei professionisti può a volte scemare rapidamente. Se poi si scopre che non sei né un turista di guerra (conclamati imbecilli, internazionali notoriamente pericolosi a sè e agli altri) né che è la prima volta che ti capita roba del genere, i rapporti si accelerano rapidamente e aiuta anche se in tenda sei fra quelli che russano di più. A Farah un’intera guardia smontante protestò con tre alpini e il sottoscritto perchè effettivamente stavamo un po’ eccedendo nel sonoro. All’inizio ci sono sempre quei momenti di rigoroso esame reciproco che si concludono non raramente con una amicizia forte anche se temporanea. Se poi si scopre in altri tempi di avere frequentato gli stessi luoghi – PX, rifugi e mense compresi – tutto diventa ancora più facile.
I volti con il tempo tendono a sfocarsi nella memoria e le uniformi non aiutano certo a riconoscere quello sguardo che incontri in borghese mentre da Santa Susanna scendi a piedi verso Via Quattro Fontane, dove il mondo militare a Roma è di casa. Uno sguardo perplesso poi incuriosito e alla fine una risata e un abbraccio che raccontano tante cose, normalmente difficili da comprendere.
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Vi aspetto numerosi a bordo. Buona domenica.
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Logbook 251 – Singolarismo, patologia sociale
Ascoltare Stefano Zamagni è ogni volta un arricchimento dello spirito, come si diceva una volta ma la frase a leggerla bene rende compitamente l’idea. Ogni volta c’è una riflessione in più, una citazione che richiama e collega autori e testi spesso purtroppo non ben conosciuti. Il collegamento (per ragioni influenzali dell’ultimo minuto) è in video, in questa serata che il Rotary di San Marino dedica a Don Milani e al suo centenario, ma il primo piano di Zamagni nel suo studio bolognese accompagna le sue parole perfettamente.
Il ricordo di don Milani che fa Stefano Zamagni è piuttosto una proposizione attuale della sua figura, di quello che rappresenta ancora di più oggi rispetto agli anni 60. “I care” ma non solo questa chiave di volta di una civiltà degna di questo nome, ricorre nel suo racconto. C’è poi anche la assurda convinzione che scuola voglia dire istruzione e non educazione, con percorsi che necessariamente non aiutano a dare senso allo studio. Studio e azione devono essere collegati strettamente per dare un senso alla fatica dello studio, altrimenti il sapere è impossibile, dice Zamagni. Sorride amaro quando ricorda quante volte si sente rispondere alla sua domanda “Lei studia?” “No. Io lavoro” e il suo sorriso si smorza perchè su questa demenziale dicotomia si spiaggia la scuola italiana. Studio e lavoro in contrapposizione, ma si può? borbotta, in un misto bolognese-romagnolo. Inferocito.
Sui tempi che corrono, Zamagni evoca poi il singolarismo, patologia sociale in corso e degenerazione tragica dell’individualismo. Il singolarismo nasce ufficialmente fra gli studiosi nel 2008 ed è la forma estrema dell’individualismo. L’individuo doveva essere sempre e comunque parte di qualcosa, di una famiglia, un gruppo, una comunità e si chiamava appunto individualismo dell’appartenenza. Il singolarismo invece è l’estremizzazione dell’individualismo e porta a troncare i rapporti sociali. Esiste solo il singolo, sempre più solo che si nutre di se stesso e vive di angoscia. Perchè ricorda Zamagni, citando Platone, il cibo è necessità dell’animale uomo ma l’essere conosciuto e riconosciuto dai suoi simili è il vero grande bisogno dell’uomo come specie fondata sulla socialità. Il singolarismo, con tutti i suoi spesso poveri narcisismi, va esattamente contro questa specificità.
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Logbook 250 – Un coro di fantasmi
Anni se non decenni credo che non rileggevo del sergente nella neve di Rigoni Stern. Lo ritrovo per caso e questa volta non lo evito. Rileggerlo però vale. Vale in tempi come questi, di guerre nella neve, la stessa neve che affrontava a ventidue anni il sergente con i suoi alpini del Vestone. Sarà proprio attraversando Russia e Ucraina a piedi a quaranta gradi sotto lo zero che riuscirà a rientrare in Italia, scoprendo che di quella vicenda russa era meglio non parlare, far finta insomma che chi tornava non fosse tornato neppure lui. Erano le scarpe di cartone e gli alpini mandati genialmente lì perchè dovevano scalare il Caucaso ma prima del Caucaso – i gerarchi e i vertici militari non lo avevano capito – c’erano migliaia di chilometri di steppa, roba per la fanteria non per rocciatori e sciatori che non vedevano all’orizzonte neppure una collina.
Così il racconto fatto di tanti piccoli momenti si snoda e ti viene freddo a leggerlo. Rivedi Marco Paolini – forse il miglior uomo di teatro che in questo momento abbia l’Italia – che lo racconta a modo suo. Il suo sergentmajur che cerca di sopravvivere e far sopravvivere gli altri suoi compagni, Paolini lo aveva raccontato magistralmente, forte solo di una coperta, un pullover militare, un microfono a archetto e un servo di scena.
La guerra è tutta lì. In una terra che invadi – come accade a Rigoni Stern e non solo a lui – convinto di avere ragione dalle trombonate di regime, per poi scoprire che quella terra non è tua, che la povera gente è povera gente ovunque, che gerarchi e imboscati restano al caldo e che le balle di radio, cinema e giornali sono solo farsa tragica.
Il racconto è diretto, veloce, ma la memoria stenta nel mettere a fuoco e scrivere orrori, fatiche, dolore apparentemente intollerabili e non tollerati da molti. Una generazione di giovani – quelli sopravvissuti – che forse proprio per questo è riuscita in qualche modo a ricostruire un Paese dalle sue macerie, senza però suo malgrado riuscire a dare quel senso di popolo, necessario per costituire una nazione realmente unita e non una congrega di fazioni e di interessi tanto simile, per molti versi, alla Firenze di Dante Alighieri.
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Logbook 249 – Democrazia maleodorante
Leggere i giornali ogni mattina una volta era considerata la preghiera dei laici, detto da Hegel e ripetuto spesso fra gli altri dall’Avvocato che pare alternasse la lettura all’alba dei quotidiani con il sottile raffinato piacere di tirar giù dal letto i suoi collaboratori, primo fra tutti Boniperti cui piaceva dormire fino a tardi. Unico a tenergli testa – a conferma della sua genialità non solo calcistica – fu Platini che alla fatidica perfida domanda dell’Avvocato mentre la notte diventava timidamente giorno “Buongiorno Michel, l’ho svegliata?” rispose “Avvocato, le pare e poi sto andando a dormire adesso”.
Tornando alla molto meno fascinosa realtà di oggi, nel leggere i giornali più che di preghiera si rischia troppo spesso di corteggiare la bestemmia reiterata. Tutto il mondo dei media infatti sembra condito con la salsa della propaganda e le corporazioni, dominatrici sotto il regime fascista, sembrano aver ripreso il loro antico posto con la morte dei partiti, incapaci di sopravvivere a Tangentopoli e contorni. Sull’eterno conflitto fra corporazioni e democrazia, ci sarebbe peraltro da dire di più del molto che si é detto. In sintesi, tornando ai giornali, se si cerca del buon giornalismo – anche d’opinione per carità, ma che sia una opinione indipendente da schieramenti – si fatica parecchio e ci si fa il sangue amaro.
Giornali, Ovvero titoli drogati, articoli di pancia per le pance dei lettori, amichettismo e nemichettismo che dilagano per cui se un comportamento é censurabile perché lo fa uno di altra fazione, nel momento in cui, nel medesimo modo, lo applica uno della propria banda diventa invece e curiosamente legittimo, alla faccia della laicità dell’informazione e via di seguito così.
Esempi se ne potrebbero fare quanti se ne vogliono ma c’è di più. Il Guardian, credibile e ben informato su certi temi, denuncia le forti infiltrazioni dei servizi russi – il vecchio espertissimo KGB che ha cambiato nome ma sempre lui è – fra i media italiani dalla prima invasione dell’Ucraina nel 2014 da parte di Putin a oggi. La notizia cade lì e rimane apparentemente senza seguito, come un frutto che cade da un albero e che si cerca di non vedere per non doverlo raccogliere.
Resta il dubbio che giornali, TV e faccioni televisivi più o meno attrezzati, recitino uno spettacolo di fantasmi mentre la gente guarda annoiata e smagata per poi subito dopo guardare altrove. Quasi il cinquanta per cento degli elettori non a caso non vota mentre la TV e i suoi programmi politici viaggiano su cifre di ascolto oggettivamente imbarazzanti. Quando una società perde fiducia nell’informazione e nella giustizia, il tanfo che viene fuori purtroppo è quello di una democrazia che imputridisce.
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Logbook 248 – Come eravamo
La vicenda fece parecchio rumore a Roma quando accadde. Teleroma 56 era ancora nel garage di Bruno Zevi, fra pile di preziose riviste di architettura che arrivavano da tutto il mondo, mentre “Ultimo tango a Parigi” era ancora condannato dai tribunali italiani alla dannazione eterna. Persino il possesso di una locandina veniva infatti punito severamente dalla legge. Tempi così.
L’idea prese corpo e ci mettemmo alla ricerca di una copia pirata. La trovammo in francese in vhs e un amico la portò da Parigi clandestinamente in treno. Organizzammo tutto e quel giorno i giornali pubblicarono il nostro comunicato in cui annunciavamo una intervista in esclusiva a Marlon Brando e a Maria Schneider. Di più non potevamo nè fare nè dire, fidando sull’intelligenza del pubblico. Invitai dunque Francesco che allora era parlamentare e segretario del PR a presentare con me il film e ad aspettare l’arrivo prevedibile e previsto della polizia che regolarmente arrivò alla fine del primo tempo. Fu peraltro la prima ma non l’ultima volta che mi ritrovai con la polizia in studio ma sono state sempre esperienze fatte di rispetto reciproco, vista la coscienza da parte di entrambe le parti che ognuno stava facendo ciò che riteneva il suo dovere.
Identificazione, sequestro del corpo del reato, stretta di mano e le due auto biancoazzurre – colore sicuramente apprezzato peraltro da Francesco che nella vicenda fu bravissimo – si allontanarono lampeggiando nella notte.
Non pensavamo di avere risolto i problemi della censura in Italia ma nel nostro piccolo un minimo segnale avevamo cercato di darlo. Sei anni dopo, nel 1987, il film fu scarcerato, diventando uno dei maggiori incassi in assoluto del cinema in Italia e restando il capolavoro che è.