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Logbook 156 – Bianco, nero e oro

È una storia antica che sembra di avere già sentito eppure non è molto nota, oltre le montagne valdostane. Me ne parlarono per la prima volta Maria Luisa Di Loreto, una delle storiche registe della Sede Rai della Valle d’Aosta che di intuito e di idee ne ha sempre avute parecchio, e Carlo Rossi, anche lui regista tv profondamente legato al territorio e alle sue tradizioni. Si trattava della storia di un uomo maturo, Luigi Silvio Novaro, un imprenditore affermatosi peraltro nel problematico ramo degli esplosivi, e di un giovane fotografo trasformatosi in cineoperatore, Edy Tillot, che intorno agli inizi degli anni 60 avevano girato la Valle d’Aosta, riprendendone ogni angolo.

Ero arrivato alla direzione della Sede non da molto – sarò stato il 1996 – quando mi accennarono di queste pellicole che Novaro aveva proposto alla Regione ma quei tempi, quando di soldi ce ne erano fin troppi, un regalo non aveva molto fascino. Se costa zero, vale zero, si sarà detto qualche geniale funzionario regionale. In sintesi Novaro si incazzò pesantemente con la Regione e le pellicole le chiuse definitivamente in un magazzino, con la forte tentazione di farle saltare per aria, il che, visto dov’erano conservate, non sarebbe neppure stato difficile. 

La storia riguardava anche il giovane cineoperatore che era nel frattempo diventato uno dei primi dipendenti della Rai valdostana e che sarebbe morto nel 1966 su un piccolo aeroplano guidato da uno dei due parlamentari della Valle, Corrado Gex, e caduto in Piemonte di ritorno da Roma. Ma questa è un’altra storia che proprio Maria Luisa Di Loreto raccontò in “Le printemps ca va renaitre”, un bellissimo programma televisivo realizzato proprio in quel periodo per me importantissimo. 

Tornando ai filmati nascosti, passai un mese a corteggiare spietatamente Silvio Novaro, una commistione fra ligure e valdostano quindi non esattamente malleabile. Senso di responsabilità, autoreferenzialità, doveri nei confronti dei nipotini, di Edy Tillot che sicuramente se avesse potuto mi avrebbe dato ragione, giocavo insomma tutte le mie carte perchè quelle immagini dovevano essere recuperate e condivise. La sera ci vedevamo, discutevamo, litigavamo, poi andavamo a cena, cenavamo, ridiscutevamo, rilitigavamo e poi ci riaccompagnavamo a vicenda alle rispettive case in centro  un cinque, sei volte a turno. Fu dura ma alla fine si convinse a dare quelle enormi pizze nei contenitori originali di metallo alla Sede Rai, giammai alla Regione che la sua occasione la aveva avuta e persa. A noi stava bene e finalmente le pellicole uscirono dal loro nascondiglio. Le digitalizzammo e fu proprio  Carlo Rossi a seguirne le relative procedure e credo che neppure un neonato avrebbe avuto le cure che lui ebbe per quelle pellicole. Venne fuori letteralmente una miniera d’oro in bianco e nero. I volti, i panorami, la gente, la vita di una comunità sorpresa fra due epoche, così diverse una dall’altra. 

Silvio Novaro faceva parte di un gruppo di amici – amicizia in Valle d’Aosta vuole dire una cosa molto, molto pesante – che avevano come riferimento d’estate il Grande e l’albergo, lassù in cima, di uno di loro, Franco Brunod. E poi l’ing. Capietto, e Don Luigi Garino, sacerdote valdostano che conosceva ogni piccolo reperto artistico della Valle, oltre a essere stato definito da un vescovo – quindi in un certo senso nominato – “cappellano dei miscredenti” locali. e come tale veniva considerato e rispettato. Era l’amicizia antica della gente di montagna, non a caso solida come la roccia. Alcuni di loro erano già morti quando arrivai ma mi sembrò di conoscerli attraverso i racconti che ne venivano fatti. 

Quelle immagini in bianco e nero raccontavano dopo trent’anni una Valle che era la loro, che stava scomparendo e che al tempo stesso stava appunto nascendo in altro, non necessariamente in meglio. Una Valle oggi forse meno ingenua, forse più ricca, sicuramente più comoda ma gli sguardi che venivano fuori da quelle immagini – dove la pellicola mostrava il suo fascino di essere tale – difficilmente potrebbe capitare di rivederli ancora.

Repubblica.it
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