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Logbook 194 – Serate vibonesi 2

Questa seconda serata vibonese – dei due giorni dedicati ad Andrea Camilleri – è stata incentrata non tanto al suo autore ma al suo personaggio più famoso, il commissario Salvo Montalbano o meglio ai suoi metodi. Montalbano in sintesi è credibile come investigatore? Per approfondire la questione occorre dunque un complice preparato, molto preparato.

Cristiano Tatarelli è il nuovo questore di Vibo Valentia. Ha avuto responsabilità investigative a Scampia contro la camorra, a Gela contro la mafia, a Taurianova contro la ndrangheta, oltre alla diciamo ordinaria amministrazione che ogni commissariato affronta ogni giorno. Insomma conosce il suo mestiere perché lo ha fatto, lo fa e lo fa vedere. Rigoroso ma capace di comunicare – cose che non sempre vanno insieme – arriva puntuale e disponibile.

Fuori continua il nubifragio che da due giorni colpisce questa città dove abitarono Giulio Cesare e Cicerone e dove basta scavare per trovare reperti di epoche lontanissima. Il pubblico non è tantissimo anzi a dire il vero siamo pochi ma il questore non sembra preoccupato anzi. Si vede che gli fa piacere parlare del suo mestiere, di farsi conoscere e conoscere questa nuova realtà.

I punti toccati sono tanti. Ci tiene subito a mettere in chiaro che per esigenze narrative Montalbano è un one man show, teatralmente parlando. È vero che ci sono i Fazio, gli Augello, i Catarella – che lui cita sorridendo – ma le inchieste sono un lavoro totalmente di squadra dove i colpi di genio sono rari e talvolta rischiosi. Per squadra il questore parla di gruppi che vanno da chi è sul terreno ai tecnici, insomma a tutti coloro che garantiscono che la macchina delle indagini funzioni. Di contro sostiene che una caratteristica di Montalbano, letteralmente fondamentale per questo mestiere, è quella di conoscere l’ambiente, le persone, quello che Sciascia chiamava il contesto. In questo, dice il questore, Montalbano è maestro così come è maestro nel sapere scorgere i bluff umani e le realtà dietro le apparenze. Altro aspetto fondamentale è il rigore morale di un uomo che deve fare rispettare la legge, che conosce la debolezza dei singoli e la ferocia delle organizzazioni.

Gli chiedo la differenza fra mafia, camorra e ndrangheta. Risponde che in fondo mafia e ndrangheta hanno una organizzazione a piramide, molto rigorosa, mentre la camorra è più diciamo una federazione di piccole realtà, più “artigianale”. Per esempio, le raffinerie  camorriste della droga è facile trovarle nelle cucine di piccoli appartamenti, una specie di km0 – mi verrebbe da dire – dal produttore al consumatore. Mafia e ndrangheta invece hanno raffinerie che sono veri e propri impianti semi-industriali e rispondono alle famose cupole. Fu Cutolo, ricorda Tatarelli, che cercò di trasformare la camorra in una organizzazione simile alle altre due ma non gli riuscì. Il mafioso, lo ndranghetista –sottolinea – hanno come legge l’invisibilità, il non farsi notare mai e comunque. Il camorrista – forse perché erede della guapparia – invece il potere lo deve esibire, far vedere. Le feste di camorra, sorride un po’ amaro Tatarelli, si fanno  ei migliori ristoranti napoletani o della costiera e diventano un po’ come la pistola sul tavolo. Vedete chi siamo, insomma? Impensabile per un mafioso, men che meno per uno ndranghetista.

Sulla diffusione delle informazioni – domanda sollecitata da Stefano Mandarano, un giornalista presente – il discorso è lungo e delicato. Va attentamente gestito per non creare situazioni che pregiudichino la presunzione di innocenza – caposaldo assoluto per chi fa il mio mestiere, ricorda il questore. Resta altrettanto vero però che la diffusione di notizie può aiutare le indagini e parla per esempio della piaga dell’usura. Senza denunce, gli usurai di fatto sono impunibili e allora forse allertare la comunità dei rischi che corre diventa fondamentale, così come in alcuni casi la notizia di un arresto – per esempio di un rapinatore – serve per trovare altri testimoni credibili utili al magistrato. Sull’usura lo vedo irrigidirsi istintivamente un po’ e lo capisco. Difficile convincere a denunciare le vittime ma parlandoci, sostiene ancora lui, facendo capire che delle due strade la più pericolosa a tutti gli effetti è quella del subire in silenzio.

Sulla gestione del territorio, il coordinamento dei vari commissariati, azzardo una immagine che lo spiazza un po’. Non si sente un po’ collega del vescovo? In fondo anche lui ha suoi responsabili sul territorio, un territorio e una comunità che deve conoscere. Non ci ho mai pensato, sorride Tatarelli, però il vescovo ha un superiore un po’ particolare e non credo si riferisca al papa ma diciamo – absit iniura verbis – al titolare dell’azienda celeste.

Fuori diluvia ancora e la piccola sala insolitamente fredda del convento cinquecentesco ascolta attenta. Lui racconta bene, il numero ristretto dei presenti forse lo fa sentire a suo agio, sia pure se con la guardia adeguatamente alzata. 

Sbirro sugnu, sorrideva dicendomelo un vecchio amico – grande commissario e poi questore – come Rino Germanà, salvatosi trent’anni fa per miracolo (e per la pistola carica sul sedile del passeggero) dai colpi di kalashnikov di tre giovani killer che si chiamavano Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, per intendersi. Sbirro, chiamava con affetto il suo commissario anche Andrea Camilleri e sbirro è anche Cristiano Tatarelli. È stato interessante, oltre che un piacere, conoscerlo per chi c’era. Vorrei dirgli qui buona fortuna per questo nuovo incarico in calabrese ma la giovane gentilissima e sorridente addetta alla reception dell’albergo dove sto scrivendo queste righe mi dice – un po’ perplessa alla domanda – che non c’è una frase simile in dialetto. Sarà un caso – mi chiedo mentre torno al computer nel salone – che non ci sia una frase del genere per una terra dura come questa dove si fa affidamento più che altro su se stessi? Comunque sia, in bocca al lupo a lei e alla sua questura e grazie per la serata di ieri.

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