Chiudi gli occhi, mentre senti parlare di Ucraina, e fra le guerre che hai visto, ti torna in mente quella più vicina a casa. La Yugoslavia era implosa dopo la morte di Tito ed era implosa male. Primo atto fu la Slovenia, il cui distacco era stato rapido e inaspettato, grazie anche al discreto supporto tedesco. Poi scoppiò il conflitto fra Croazia e Serbia, 1991 e lo ricordo bene. Per me era cominciato a gennaio a Tel Aviv dove i missili di Saddam – i famosi Scud, non esattamente precisissimi visto che sbagliavano addirittura città, intercettati dai Patriot israeliani – cadevano la notte, quando il controllo dai satelliti era di fatto impossibile. Poi a dicembre, dopo Natale, il fronte serbo-croato dove passammo il Capodanno con Alfonso Nasti e Paolo Stella. Girammo da Osjek a Karlovac passando per Zagabria. Oltre le rive della Korana, a sud, c’era l’artiglieria serba. Un viottolo scendeva al fiume fra la boscaglia, controllato da un plotone croato, impegnato in una partita a carte. Chiedemmo se potevamo arrivare al fiume per riprendere i serbi. Risposero che per loro non era un problema – nel senso del fate un po’ come vi pare – ma che era meglio tenersi sul lato sinistro del sentiero perché avevano minato quello di destra. Discutemmo un po’ fra noi. Io che ero il più vecchio – ! – ero un po’ dubbioso. Proposi al caporale di accompagnarci giù per la famosa banconota da dieci dollari, passe-partout solitamente miracoloso in simili circostanze. Il caporale rifiutò e allora capimmo che era meglio lasciar perdere. Le immagini le facemmo più lontano, da un’altura. Il giorno dopo un fotografo (mi pare svedese o danese) purtroppo saltò proprio su una di quelle mine per uno scatto che valeva tanto ma non così tanto.
Fu una guerra che uccise quasi un centinaio fra reporter, operatori e fotografi, molti dei quali ignorati o dimenticati. Passammo proprio su quel fronte la notte di Capodanno. Ci eravamo aggregati quel giorno alla brigata internazionale e la sera dell’ultimo dell’anno si cominciò a bere molto presto mentre gli arrosti già giravano negli spiedi. Eravamo in una specie di casale abbandonato e poco prima di mezzanotte, fra fumo e slovovitz, con Alfonso decidemmo di uscire e arrivare fino alla prima linea, poche decine di metri più avanti. A mezzanotte sia l’artiglieria croata che quella serba cominciarono a sparare traccianti rossi per festeggiare il nuovo anno. Scena sotto certi aspetti pittoresca se non fosse che, finiti i traccianti, le artiglierie, in preda al festoso entusiasmo, iniziarono a scambiarsi proiettili veri. Noi che eravamo esattamente nel mezzo fra loro, cominciammo a ragionare sull’idea che potessimo restare vittime di demenziali festeggiamenti da parte dei due schieramenti, molto probabilmente obnubilati entrambi da sostanze decisamente non analcoliche e, per di più, era pure il primo Capodanno di mio figlio a Roma. A mezzanotte esatta ci scambiamo la bonne année con i tre francesi di guardia, dandoci la mano. Ricordo ancora nella mia mano il loro guanto della mano destra privo delle prime tre dita, tipico degli snipers, nonostante il freddo intenso.
A Osjek, non distante da Vukovar, ancora sanguinante per la recente tragedia, raggiungemmo Marco che era lì con Olivier Dupuis, Lucio Bertè e alcuni altri radicali. Lui e Dupuis avevano indossato la divisa croata e questo aveva fatto notizia ma al tempo stesso aveva obbligato il Parlamento Europeo di cui era membro dalla sua prima legislatura ad affrontare la realtà di una guerra nel cuore dell’Europa. Forse la sua iniziativa contribuì in qualche modo a sbloccare la situazione. La vita in quei giorni la rischiò realmente e, nel caso, sarebbe stato un cadavere piuttosto ingombrante – in tutti i sensi – sia per l’Italia che per l’Europa. Anche quella volta insomma cercò in qualche modo di dare coraggio alla politica internazionale, cosa che in fondo per lui è stata una costante di vita non solo politica. Non era peraltro abituale sentirlo parlare sotto le sirene antiaeree, quelle sirene che si ascoltavano – unico suono trasmesso – da quelle strane radio apparentemente spente e che erano ovunque, nei bar, nei negozi, ovunque, accanto a quelle che invece trasmettevano regolarmente i loro programmi.

Non si sa se sono meglio i tiri alcoolici dei Balcani o quelli astemi dei paesi islamici. Nel dubbio, nessuno dei due. Bellissime descrizioni.