Logbook 239 – La grande mort

Il Gattopardo. Libro e film, certo, ma il libro è il libro. Rifinito in ogni sua virgola, ha un finale che invece Visconti nel film preferisce mozzare a mano armata, con il Principe di Salina che si allontana confondendosi all’alba, fra i vicoli di Palermo, dopo essersi inginocchiato davanti a un prete con il Santissimo diretto verso la casupola di un moribondo. Tomasi aveva scelto invece per Don Fabrizio una chiusura più avanti nella storia, costruendo di fatto una delle chiusure di libro, di storia e di vita più belle che io ricordi. Il piccolo nipotino che assiste alla scena è lo stesso scrittore che abilmente confonde nella loro fine nonno e bisnonno. Resta Palermo come luogo finale, non più i vicoli ma l’albergo Trinacria – ancora oggi uno dei più belli della città – con la camera da letto e il balcone. L’arrivo di una donna a lungo corteggiata – “Zione, che fai? Corteggi la Morte?” gli aveva chiesto decenni prima Tancredi  mentre Fabrizio si stava redendo davanti allo specchio – è capolavoro in un capolavoro (meglio ricordarlo ancora, a gloria eterna dell’editoria italiana e della sua tradizione) che il suo autore non vide mai stampato.

“Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta a essere posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto”. Vale la pena, a ben vedere, morire se si muore così.

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