Tano D’Amico è forse il più grande testimone per immagini che abbia avuto l’Italia anonima, quella di cui si parla a fatica sui giornali. Le sue immagini sono regolarmente dei capolavori che restano oltre la cronaca, nella storia. Oltre a una maestria tecnica, quello che mi ha sempre incuriosito, vedendolo lavorare, è la sua attenzione, la sua discrezione, il suo entrare in punta di piedi in contesti spesso tragici.
Ci conosciamo da tanto tempo, anche se – come accade purtroppo fra la gente di mare, del mare della vita – non ci si vede più se non casualmente e restano soltanto tanta memoria e tanto affetto. Lo conobbi nella redazione di Lotta Continua, che frequentavo sporadicamente. Condivideva il suo box con Vincino ma lui ci stava poco, sia perché è uno perennemente in giro sia forse anche perché l’aria non è che fosse proprio respirabilissima in quella stanza. Erano due geni così diversi della stessa terra siciliana. Vero è che Tano è isolano due volte rispetto a Vincino, palermitano doc, perché è di Filicudi, la Filicudi degli anni ’50.
Nel settembre 1983 andammo insieme con un viaggio incredibile via nave – nave in senso lato – in Libano, a Beirut. Fu il famoso Settembre nero dove saltarono per aria il quartier generale francese e quello della Cia. Una decina di lasciapassare erano necessari per girare in città fra drusi, kataeb, Armè libanese, italiani, americani e francesi eccetera che controllavano la città per zone. Lavorammo parecchio, soprattutto presso il contingente italiano del Generale Angioni, sentendo i soldati italiani, ancora di leva. Erano giorni complessi in cui gli sciiti, usciti dal loro quartiere, irruppero nel quartiere occidentale e occuparono la tv nazionale per qualche ora. Irruppero anche in un cinema di Hamra, nel centro, interrompendone, con il contributo dei loro AK47, la proiezione. Fu peraltro una interruzione un po’ surrealista perché il pubblico – per qualche misteriosa ragione, visti i tempi – stava assistendo a un film piuttosto in tema. Ho ancora la foto che scattai all’insegna mitragliata del cinema in cui si riconoscono ancora una A, una P, una S e una Y e un NOW ancora intero. Grande film con un Brando eccezionale ma soprattutto in quel momento ben contestualizzato sia nello spazio che nel tempo.

Tano D’Amico ha sempre usato il sorriso come biglietto da visita. Un sorriso che controbilancia le macchine fotografiche appese al collo e un rispetto per le persone e i luoghi che ogni volta lascia stupiti. Ogni sua foto è un documento perché lui sa cosa sta fotografando perché lo cerca. Una volta mi ha detto che nello sguardo delle persone cerca lo sguardo della nonna che lo ha cresciuto nella sua piccola isola e non a caso i primi piani di Tano hanno gli occhi che bucano. Migliaia di scatti, ognuno con una storia.
Una volta – 1977, anno complesso in cui spessissimo ci ritrovavamo fianco a fianco – il Tribunale aveva denunciato a piede libero delle femministe. Allora il femminismo era allegria rigorosa o se si vuole allegro rigore. Si scherzava poco a quei tempi su quelle tematiche. Il femminismo – penso ad Adele Cambria, a Dacia Maraini – schiodava secolari incrostazioni anche se, a giudicare da quel che si vede oggi, il lavoro è ancora da completare. Insomma eravamo lì, mi pare a via Teulada davanti alla Rai, e centinaia di donne che manifestavano a un certo punto – andavano molto di moda fra loro gli zoccoloni oltre che le gonne a fiorelloni e gli immortali stivali – cominciarono prima una poi un’altra a impugnare i relativi zoccoli al grido appunto di “Siamo tutte a piede libero”. Una delle migliaia di storie che Tano D’Amico potrebbe – se volesse – raccontare, foto per foto.

Troviamo gli scatti fotografici di Tano su Wikipedia. Bellissime.