Lo incontrai la prima volta davanti ad una libreria del centro a Teramo e legammo subito. Aveva accettato di candidarsi consigliere comunale nella sua città – era il 1990 – ed era appena arrivato per chiudere la campagna elettorale che io seguivo per la tv. Amava Teramo ma suo malgrado, come si ama una mamma insopportabile. Quelli erano momenti determinanti per la città e quelle elezioni comunali potevano rappresentare una svolta non solo per Teramo e in fondo lo furono.
Arrivammo all’ultimo giorno della campagna e solo allora, dopo giorni di discussione, si convinse a immaginare un concerto finale, nella sua piazza, dopo i comizi e prima del black out elettorale. C’erano già, per gli interventi politici finali, il palco, le luci, l’amplificazione e il pullman regia tv ma mancavano gli strumenti e lui era senza le sue chitarre che non aveva portato da Roma, forse proprio per obbligarsi a non suonare. Il gioco, la partita e il richiamo degli angoli, nel vecchio centro della città, invece, lo presero e passammo un pomeriggio correndo come dei matti per tutte le cantine dei vecchi amici a cercare artisti e strumenti. A quel punto, lui quel concerto lo voleva fare e lo voleva fare bene perché alla fine si sentiva a casa sua. Girammo all’infinito da cantina a cantina, finche non trovammo un paio di chitarre che secondo lui – che, in fatto di chitarre, dire che era maniacale sarebbe profondamente riduttivo – potevano andare. Ho sentito peraltro spesso dire da giornalisti del settore che era il miglior chitarrista che ci fosse in Italia e nel modo con cui controllava una chitarra – come fosse viva e per lui lo era – te ne rendevi conto.
Qualche giorno prima eravamo in piazza, dietro due caffè o due Campari non ricordo, davanti alla scalinata di quello strano duomo teramano con due facciate, frutto della congiunzione di due antiche chiese. Accennò a quegli scalini, scosse la testa sorridendo e raccontò delle migliaia di ore passate seduto lì sopra da bambino e poi da ragazzino e poi da ragazzo su quelle scale, inverno e estate, pomeriggi e sere, sole e neve, sempre solo lui e la sua chitarra. So quanto devo a quegli scalini e a tutte quelle ore, diceva. Quella scalinata è stata la mia scuola, la mia bottega, il mio primo palcoscenico, la mia prima compagna. Se ne andò via a diciotto anni. Vedi, disse guardando quella scalinata, io in fondo sono diventato famoso, ho venduto dischi di platino eccetera ma qui siamo in provincia e io qui sono sempre “lu figlie de lu fotografe”. Sia perchè la provincia, come si dice, perdona tutto tranne il successo, sia per una timidezza della comunità che riconosce solo ciò che conosce, insomma sia quel che sia, lui sorrideva raccontandolo ma fino a un certo punto.
Quella sera feci la regia del concerto, finendo come lui, ma per altre ragioni, senza voce. Venne fuori una bella serata per una cosa diciamo organizzata un po’ così, improvvisata in amicizia, con amici che sul palco suonavano di nuovo, insieme dopo una vita, davanti a tutta Teramo. Durante il concerto, a un certo punto, a Ivan si ruppe una corda della chitarra. Sono convinto ancora adesso che accadde naturalmente – vista anche la chitarra che avevamo rimediato e che non era certo una di quelle della sua collezione – ma lui sapeva il suo e con la chitarra in mano era imprevedibile. Il resto del concerto suonò a cinque corde, cosa che non credo sia semplicissima – ma me ne intendo poco – e la gente era in delirio.
Finito che fu, ci abbracciammo davanti al pullman regia, giurandoci reciprocamente mai-più, mai-più. La domenica, alla fine dello spoglio, risultò eletto insieme a altri quattro consiglieri. Le elezioni insomma andarono alla grande – per la gioia di grandi e piccini, come direbbe Monica Fabbri – dando un segnale forte in una città abituata a un antico coma politico. A quei tempi, avevo una vecchissima bellissima Jaguar XJ6 Terza serie blu che un anziano meccanico di Monteverde Vecchio aveva rimesso a nuovo. La comprai per poche lire – a quei tempi veniva considerata un rottame – con il mio primo stipendio Rai e lui si divertiva moltissimo a girare con me su quell’auto durante la campagna elettorale. Era solo una vecchia bella macchina, allora completamente fuori mercato, che consumava come un F35 ma ancora oggi la ricordo con affetto e fece la sua parte anche lei in quella vicenda. Lui andò via per un tumore, a poco piu’ di cinquant’anni.
Quando era piccolo, sentivo ogni tanto Luigi cantare dalla sua camera e con il suo straordinario orecchio musicale “Signore, è stata una svista abbi un occhio di riguardo per il tuo chitarrista”. E così, io spero che il Dio di chi legge (se chi legge ha un Dio) quell’occhio di riguardo per il figlio del fotografo di Teramo e per la sua chitarra lo abbia poi avuto, nonostante le eventuali sviste.
