Logbook 84 – Collezione mare

Finalmente il sole e conseguentemente il caldo. All’orizzonte, il promontorio di San Bartolo è di nuovo verde, un verde vivo, dopo l’incendio devastante di qualche anno fa. Il monte, che segue di fatto in scala da Sud Gargano e Conero, i suoi fratelli maggiori, chiude la linea delle tre montagne a mare dell’Adriatico italiano, prima della foce del Po. E’ il più piccolo dei tre, certo, ma ha anche lui il suo fascino nonostante non offra alle barche, se c’è mare, molto riparo e, se si è in rada, la notte si intravedono le luci di Pesaro dietro l’angolo. San Bartolo è parco ormai da tempo e la natura è splendida quanto il mare, almeno fino a quando la corrente che viene da Nord non porta la spazzatura della riviera.

Da Rimini è la migliore per qualche ora di vela, se occorre rientrare in giornata. Per mettere in rotta la barca, come praticamente ovunque e da sempre nel Mediterraneo, si va a vista anche se gli strumenti è sempre meglio averli sott’occhio ma il primo quesito da porsi, tenendo conto delle cozzare – veri e propri giganteschi orti marini, caratteristici dell’Adriatico e gestiti da gruppi di diciamo contadini nautici – è se passare sotto costa e all’altezza di Cattolica risalire le falde settentrionali del monte. L’alternativa è portarsi subito al largo, lasciandosi a poppa grattacielo e ruota panoramica, e poi, una volta superate le cozzare, mettere prua a dritta verso San Bartolo.

C’è qualcosa che va oltre il bello della natura in quel mare che separa e unisce Romagna e Marche, perchè su quel promontorio aleggia da secoli la leggenda della città scomparsa. Nei suoi fondali infatti si narra di ruderi, di una città scomparsa. La città sarebbe stata fondata dai Greci e per i Romani era Crustumium per poi diventare la medievale Conca, dal nome del fiume che sfocia vicino. I documenti ne parlano e ne parla Dante che questo territorio conosceva benissimo ma di questa città scomparsa nel Mare Adriatico si sa poco o nulla. Ritrovamenti archeologici, certo, visibili al Museo Archeologico di Cattolica ma difficilmente capaci di attestare definitivamente una storia che sfugge fra le mani e le onde dell’Adriatico.

Leggenda o realtà, la città fantasma che spesso viene definita la piccola Atlantide adriatica non dà segno di sé se non in particolari contesti mai determinanti anch’essi. Vero è che i vecchi pescatori per antica tradizione non gettavano le reti in un punto preciso davanti a Vallugola perchè le reti si impigliavano in qualcosa che sembrava improbabile potessero essere scogli, troppo lontani dalla costa, o relitti, troppo ridotti rispetto all’area in questione. Il mistero continua e forse è giusto così.

Molto meno misteriosa ma altrettanto affascinante, scavalcando l’Italia da un lato all’altro, sul Tirreno, a pochi metri dalla costa, sono invece ben visibili i resti di Pyrgi e qui entrano in ballo gli Etruschi, marinai e pirati per eccellenza, insieme ai Fenici. Pyrgi era il porto di Caere, quindi uno dei più importanti del Tirreno, a ridosso di Capo Linaro, con la sua secca che si spinge al largo come una lama e che lo ha reso, nel corso dei secoli, uno dei posti maledetti per eccellenza da navi e marinai. La costa bassa conserva ben visibili i resti del porto e del tempio, all’ombra del Castello di Santa Severa mentre più a Nord, domina tutta la costa il porto di Civitavecchia con la sua antichissima Darsena Romana, non molto cambiata di fatto negli ultimi duemila anni. È uno dei luoghi più sicuri dell’intero Mediterraneo – talmente sicuro che spesso i pescherecci ormeggiano solo di poppa – protetto dal secondo successivo porto dominato dal Forte michelangiolesco e poi dal recente lunghissimo antemurale dove le gigantesche navi da crociera ormeggiate distribuiscono in estate, con molta equità, alle barche che rientrano una piacevolissima ombra e un tanfo di fritto insopportabile.

Più lontane ci sono Alessandria, affondata a dodici metri di profondità per una superficie di quarantamila metri quadrati e, tornando in Tirreno, Baia, rifugio preferito del generone romano dei tempi di Seneca, le cui ville ormai sommerse oggi sono diventate un sito archeologico subacqueo unico al mondo che, al solito in questi casi e in questo distratto Paese, meriterebbe molta più attenzione di quella che attualmente riceve.

Il mare, soprattutto il Mediterraneo, è in fondo a tutti gli effetti il più grande collezionista di beni artistici che ci sia sul pianeta. Non troppo generoso nel condividere la sua collezione – ma questa è caratteristica comune ai collezionisti – va rispettato anche in questo perché comunque conserva e a volte ridà. Forse ha ragione Carlos Ruiz Zafòn quando dice che il mare restituisce tutto dopo un po’ di tempo, specialmente i ricordi.

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