“Parlare di gioia – mi dice il Vescovo di Bologna Matteo Zuppi, siamo nel 2017 ed è appena arrivato in città – non significa non rendersi conto delle difficoltà, per esempio dovute alla crisi economica, che di speranza ne ha tolta parecchia. La crisi ha un impatto sulle persone molto profondo… La gioia però è il miglior antidoto alla paura, ma non quella gioia drogata da tante dipendenze di cui facilmente ci si riempie la vita, ma la gioia di risolvere i problemi e di sapere che questi non sono l’ultima parola”.
Lui parlò per più di un’ora, in quella sala gelida nel cuore del Vescovado, che avevamo attrezzato a studio televisivo, giocando ogni tanto con il suo accento romano che condividevamo sorridendo. Parlava della Chiesa degli Ultimi, di Papa Francesco – ero in auto, racconta, quando ho sentito della fumata bianca – dei senza casa che aveva imparato a conoscere bene da viceparroco di don Paglia a Santa Maria in Trastevere. A pensarci bene e per inciso, non è chiaro come mai a Roma e per i romani don Paglia è sempre stato ed è tuttora don Paglia mentre lui invece è sempre stato don Matteo. Piccoli misteri romani e vaticani, realtà parallele di una città forse ormai più enorme che eterna, ma che storicamente si intrecciano e si sovrappongono molto spesso e non da oggi.
Così don Matteo, la settimana scorsa, è diventato il referente di tutti i vescovi italiani, il che vuole dire un riferimento forte per questo Paese e non soltanto per il mondo cattolico. Lo stile è tutt’altro che curiale, nel senso più antico del termine. Niente di esibito se non con una certa rispettosissima autoironia, in pieno stile francescano o forse meglio dire bergogliano per evitare equivoci fuorvianti. D’altronde l’ironia e l’autoironia, sempre molto discrete, sono di casa in Vaticano. Giovanni Paolo II, ad esempio, fu il primo papa a rinunciare alla sedia gestatoria, portata a spalla per antica tradizione dai nobili Sediari. Quando gli venne fatto notare in Vaticano che così sarebbe stato il primo papa a non utilizzarla, Karol Wojtyla rispose che preferiva questo, piuttosto che passare alla storia come il primo papa che cadeva dalla sedia gestatoria. Ovviamente utilizzò l’ironia per dire altro, un altro che tutti comunque capirono e così il trono papale portato a spalla dai nobili romani – il simbolo del Papa Re – non venne più utilizzato.
Tornando al cardinal Zuppi, facile dire, per chi lo conosce bene, che alla Cei farà e farà tanto, farà e farà bene perché conosce le persone, ascolta, riflette, si informa. A cominciare dal dossier legato agli abusi, la sua scrivania non sarà certo sgombra di problemi e di scelte.
A proposito di ascolto e di attenzione alla realtà, nel corso dell’intervista rispose alle mie domande ma fuori dall’intervista fui io a rispondere alle sue. Scherzò, fra l’altro, sulla Rai e vedevo che conosceva molto bene la mia azienda, salvo poi rivelarmi sorridendo che un mio collega con il suo stesso cognome – uno dei dirigenti Rai più autorevoli e capaci del Settimo Piano di Viale Mazzini e che peraltro conoscevo bene – era suo fratello. Non mi era passato per la mente neanche un momento che potesse non trattarsi di una omonimia. Il tempo volava mentre il suo efficientissimo assistente – l’onnipresente don Sebastiano – controllava tempi, agenda e tutto il contesto.
Il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e da cui lui ha preso il pesantissimo testimone, aveva comunque già modificato sensibilmente la rotta della Cei, sia nella sostanza che nella forma. Anche Bassetti è un sacerdote fra la gente – ancora la Chiesa degli Ultimi – senza esibizione ma per consuetudine e convinzione. Ne fui peraltro personalmente testimone diretto e preoccupato a Perugia, un pomeriggio di Capodanno di tre o quattro anni fa e fu un piccolo ma importante episodio.
Quel pomeriggio, entrammo mio figlio e io a San Lorenzo, la cattedrale che domina la piazza e Corso Vannucci, che poi sarebbe il Perugino in tutto il mondo, tranne che in questa città dove è e resta Pietro Vannucci.
La messa di Capodanno era appena finita e noi due eravamo in fondo alla chiesa mentre una processione si snodava dall’altare con in testa il cardinal Bassetti e dietro tutto il clero della Diocesi. Arrivati in fondo alla chiesa, lui vede mio figlio e qui occorre un chiarimento per chi ci legge e non lo conoscesse. Dopo le prime venti operazioni neurochirurgiche – nei suoi primi due anni di vita – ho smesso di contarle. Intendiamoci, lui è solido, allegro, divertito e divertente e insomma e, come dicono quelli che lo conoscono – non io che sono di parte – è un ragazzo in gamba. Personalmente sono molto contento di lui. A farla breve, il cardinale lo vede, lui lo saluta con la mano, il cardinale fra lo stupore di tutta la chiesa gremita molla la testa del corteo – so che si rischia il Giro d’Italia, se dicessi che va via in fuga dal gruppo ma di fatto così fu – e viene ad abbracciarlo. Mio figlio lo abbraccia anche lui, il corteo aspetta paziente mentre io mi ritrovo nella difficile posizione di evitare che entrambi finiscano per terra, pastorale e mitra compresi. L’abbraccio si prolunga qualche momento, si parlano e io tengo più o meno insieme l’insieme, poi il cardinale lo benedice e torna a guidare la sua processione. È stato tutto assolutamente naturale, intendiamoci, Se c’è una cosa di cui mi intendo, è proprio quella di come le persone si rapportano con le disabilità quindi non ho dubbi su questo. Bel momento dunque e un ragazzo e un cardinale che ne sono stati evidentemente felici. Ancora oggi – e non ho mai avuto occasione purtroppo di ringraziarlo di persona – gli sono grato per il momento e il ricordo che ha regalato a un ragazzo.
Sia lui che don Matteo sono preti così e da laico – da miscredente, come si diceva un tempo – confesso che mi fa piacere che esistano.
