Logbook 88 – La grande lezione

Ci sono persone che segnano in modo determinante le nostre vite, sia individuali che come piccole parti di un complesso sistema sociale. Sono persone però di cui spesso non sappiamo nulla o pochissimo, persone che restano nell’opera o nelle opere – che poi in fondo è anche quello che hanno desiderato loro – ma naturalmente dispiace. L’ingratitudine è grave ma quando non si conosce la persona cui dobbiamo essere grati – o magari non sappiamo neppure che enorme debito abbiamo con lei – questo diventa forse un po’ più comprensibile.

Andrea Canevaro ha cambiato il volto di questo Paese per quanto ha detto, ha fatto, ha insegnato nell’ambito della formazione e dell’educazione ma anche e forse soprattutto in quello legato al superamento dell’handicap. Sotto certi aspetti, fatte le debite differenze, ricordava con la sua storia quella di Giovanni Bollea, il fondatore della moderna neuropsichiatria infantile in Italia.

Prima di Andrea Canevaro, le condizioni delle persone con disabilità erano in maggioranza letteralmente agghiaccianti. Ricordo bene lo sguardo e la voce di quando raccontò davanti alla telecamera una sua ispezione, alla fine degli anni ’70, in un centro disabili e le condizioni che aveva trovato. La sua forza era la convinzione di poter cambiare le cose che non funzionavano e che si potevano cambiare. Così le cambiava con la pazienza – che era una delle sue aromi più temibili – e con il rigore d’acciaio, sempre rivestito di una sorta di dolcezza che gli veniva naturale e che rendeva l’acciaio ancora più inossidabile.

Lo conobbi a Bologna quando dirigevo la Sede Rai mentre lui dirigeva il Dipartimento di Scienza dell’Educazione dell’Alma Mater, per un progetto volto a salvare l’archivio del maestro più famoso d’Italia, Alberto Manzi, il protagonista di un programma televisivo che aveva insegnato l’italiano e a leggere e a scrivere a una gran parte della popolazione analfabeta, uscita a pezzi dalla guerra. Era la grande tv di “Non è mai troppo tardi”, titolo assolutamente geniale, che Alberto Manzi conduceva con sicura professionalità e un senso e una dignità televisivi che oggi sarebbero un sogno, rispetto al teatrino volgare e presuntuoso dominante. Salvammo l’archivio cui lui teneva molto e credo fu una buona cosa.

Diventammo amici e i suoi consigli su come ad esempio affrontare una realtà come la genitorialità di fronte a figli con disabilità – erano preziosi anche se molto definitivi. Sapeva ascoltare – era difficilissimo che ti interrompesse mentre parlavi, qualità preziosissima e oggi inattuale, così come era impossibile interromperlo quando parlava lui – ma aveva le idee molto chiare, idee verificate ogni giorno in una realtà che conosceva bene.

Amava le sfide più dure, più difficili, e nel settore in cui operava non mancavano di certo. Una volta ero fuori da un piccolo albergo di Sarajevo, dove avevamo una attività che gestivamo come Segretariato Sociale Rai in stretta collaborazione con la Farnesina e dedicata ai giornalisti bosniaci. La guerra era finita da non molto e le cicatrici erano ancora visibili, quando non erano piaghe ancora aperte. I giornalisti appartenevano alle varie etnie e gli inizi di ogni corso non erano semplici ma, come sempre, lavorando insieme si superavano presunte diversità infondate. 

Quella mattina eravamo in un momento di pausa. Ero fuori con una tazza di caffè in mano e vidi passare un taxi che arrivava veloce dalla Bashahca, la strada indimenticabile di Sarajevo, e mi sembrò di riconoscere a bordo il suo volto che mi guardava stupito. Probabilmente avevo la sua stessa espressione. Il taxi mi superò, frenò e poi tornò a marcia indietro. Lui scese e, dopo un primo momento di stupore, ci abbracciammo. Mi raccontò che aveva accettato di occuparsi delle condizioni dei bambini sopravvissuti alla guerra, coordinando – ma di fatto prima creandolo dal nulla – un progetto in quella emergenza feroce e in uno dei contesti più tragici conseguenti a un conflitto. 

La sua vita è stata questo. Disponibilità, coraggio, sensibilità, formazione, capacità di non accettare le cose che non erano come dovevano essere e al tempo stesso di saperle cambiare. Sarebbe stato bello, giusto, che chi oggi vive in condizioni diverse da quelle di quando lui cominciò il suo viaggio accanto al dolore –  ma sempre forte del fatto che la felicità è comunque ovunque possibile per tutti coloro che la desiderano – che tutte quelle persone oggi sappiano quanto gli devono. Gli ultimi tempi era stanco ma non dimenticava mai agli amici una mail di auguri a Natale o a Pasqua, una disponibilità sempre più costosa in termini di risorse e energie. Era una grande, grande, grande persona il cui segno resterà in coloro che ha formato – e sono tanti – e in ciò che ha fatto e che ha insegnato. In fondo questa è poi l’unica cosa che realmente gli interessava.

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