Quando capito a Roma e quando è possibile, passo a salutare un caro amico. Il suo ufficio è in centro e la perfetta efficientissima cortesia del personale di sorveglianza – segno di attenta organizzazione ai dettagli che sono poi la chiave di tutto – è inusuale in ambito capitolino. Nel suo grande ufficio ci guardano serie ma bonarie, in grandi cornici d’argento, le foto – tutte con le relative affettuose dediche – di tre Presidenti della Repubblica e di un Presidente del Consiglio con cui ha avuto rapporti di stima, fiducia e almeno in un caso di profonda amicizia.
Condividiamo molte cose, in queste conversazioni, a cominciare dalle mattine con i giornali, io che leggo in radio per un’ora e mezza e lui che ascolta con estrema documentata attenzione in una comunità di affezionati ascoltatori cui apparteniamo entrambi e che so essere vasta e valida. Ormai sono quarant’anni che ogni giorno Stampa e regime racconta la stampa italiana senza sconti. E’ di parte certo, perchè altrimenti sarebbe una bacheca, ma sicuramente rappresenta un esempio riconosciuto di rigore e correttezza.
Sono passato a trovarlo anche la settimana scorsa e il discorso è capitato sui sondaggi presenti sui giornali in quei giorni e che da oltre venti anni dominano la scena politica italiana, drogandola spesso di false certezze e improprie convinzioni. Gli espongo una mia idea, legata al fatto che il responsabile di questa innovazione non necessariamente positiva, a mio avviso, sia stato Silvio Berlusconi. Sorride e mi chiede perchè.
Comincio a spiegarmi. Prima di Berlusconi la politica non era appassionata particolarmente ai sondaggi. C’erano, certo, ma solitamente prima delle elezioni e rappresentavano una sorta di curiosità cui si credeva relativamente anche perchè spesso le risposte non rappresentavano il vero pensiero dell’intervistato. Poi quando Berlusconi è sceso in politica, le cose sono improvvisamente cambiate. Il Cav proveniva da anni e anni di televisione vissuta sempre al centro dello scenario e su cui era impegnato totalmente. Per un editore televisivo, ovunque e da sempre, i dati di ascolto – credibili o meno che siano ma comunque accettati per convenzione come tali – sono la bussola quotidiana per regolare la rotta della nave da parte di chiunque faccia tv. I dati della prima serata si attendono ogni sera con ansia negli uffici che costruiscono e rispondono delle programmazioni televisivi di ogni broadcast. In Rai, ad esempio, le luci del sesto piano di Viale Mazzini – il sesto è il regno del Coordinamento Palinsesti – sono le uniche a restare accese fino a dopo mezzanotte. Tutte le altre vetrate del palazzo costruito da Francesco Berarducci infatti sono buie dopo le sette di sera ma le sei finestre dove lavora il palinsesto restano invece illuminate, in attesa degli ascolti della serata, con lo stesso stato d’animo del pokerista che aspetta le sue carte al tavolo verde.
Quando dunque Berlusconi scese in politica, doveva trovare un’altra bussola di riferimento a quello che erano per lui i dati d’ascolto. Diede vita così ai sondaggi – cosa che avveniva da sempre negli Usa – che divennero quotidiani, noti o riservati che fossero. Il fatto è che, nonostante tutto e checché se ne dica, la televisione non è la politica e la politica non è la televisione. Applicare dunque, nella gestione della politica, degli strumenti che sono propri di bilanci televisivi quotidiani – quindi necessariamente parziali e incompleti – può essere fuorviante. La popolarità di un leader o di un partito – dichiarata in sondaggi anch’essi come i dati di ascolto non necessariamente attendibili – è difficile risulti credibile in riscontri quotidiani quando la tempistica politica dei risultati richiede da sempre mesi se non anni, visto che si vota ogni quattro anni e non ogni santo giorno. Fotografare quotidianamente, insomma e per esempio, un albero che cresce potrebbe dare indicazioni sbagliate sulla realtà in corso. Certo, in tutto questo gioca anche la fretta – la vera droga del secolo – e il bisogno di avere certezze, oltre ovviamente alla tendenza italiana alle classifiche e alle figurine da collezionare, benedette o maledette che siano.
A ciò si aggiunga che gli studiosi sostengono che un sondaggio, per avere una qualche scientificità, deve poter contare su almeno duemila persone che rispondono. Che rispondono non che sono contattate, sia chiaro, ma guarda caso, quando si pubblicano i sondaggi, le indicazioni di come è stato fatto il sondaggio finiscono spesso in caratteri minuscoli e in forme incomprensibili ai più. Così come i dati di ascolto televisivi sanciscono la quantità e non la qualità, così i sondaggi politici descrivono gli umori di pancia di un Paese dove d’altronde la democrazia stessa è per sua stessa natura governo dei più numerosi cioè non necessariamente dei migliori. Può capitare persino poi che i più numerosi possano anche essere i più incompetenti e finire lo stesso al governo del Paese anche perchè necessariamente l’opinione della maggioranza non può che essere, su specifici temi, l’espressione dell’incompetenza, ma questo è un altro vecchio discorso.
Dico queste cose e lui ci ragiona un po’ su poi dice che sì la cosa sembra reggere mentre ci salutiamo e, come sempre, mi accompagna fino alla porta. Prendo fiato uscendo dal palazzo – in fondo alla strada intravedo Piazza di Spagna – e mi ributto nel caos caotico e mefitico di questa Roma agonizzante che non capisco più ma che mi appartiene e cui ostinatamente appartengo ancora, sia pure con la memoria. Nonostante tutto e, quando sono qui, mi sento sempre un po’ come quei nobili polacchi di due secoli fa, a Parigi, che si dichiaravano disponibili a morire per la Polonia ma non a viverci.
