Logbook 162 – Un mestiere difficile

Fare bene il parlamentare è un lavoro complesso, difficile, impegnativo. Richiede costanza per partecipare ai lavori delle commissioni, attenzione per riuscire a comprendere i vari risvolti dell’attività legislativa, coraggio per difendere il proprio ruolo di rappresentante di tutti i cittadini e non solo della parte che ti ha eletto o peggio ancora del leader o della corporazione che ti ha espresso.

È difficile oggi vedere in questi rappresentanti del popolo – ormai da decenni non nominati direttamente dal popolo – la dignità che ebbe un tempo la prima generazione di parlamentari, molti dei quali avevano avuto modo grazie al Regime di studiare e riflettere a lungo nelle carceri e al confino. La lettura dei dibattiti parlamentari sarebbe formazione fondamentale per i giovani eletti molto più dei vari Twitter che durano lo spazio di un istante.

Marco Boato è stato uno dei migliori parlamentari che abbia mai avuto modo di conoscere. Lo seguivo quando era alla Camera in un gruppo parlamentare unico come quello radicale che venne fuori dalle urne nel 1979. Sciascia, lo stesso Pannella, De Cataldo, Mellini, Spadaccia, Aglietta, Bonino, Corleone, Rutelli, Tessari e tanti altri formavano una squadra di parlamentari unica nella storia del Parlamento repubblicano.

Marco è stato un parlamentare di riferimento anche per i deputati degli altri gruppi che ne conoscevano e riconoscevano le qualità. Il regolamento – la prima cosa che gli vidi studiare appena arrivato – lo imparò subito praticamente a memoria e poi si concentrò in particolare sulla giustizia. Erano gli anni dei processi. Il processo 7 aprile si svolgeva nella vecchia storica Sala della Scherma al Foro Italico, devastata nella sua bellezza dalle sovrastrutture necessarie per renderla aula bunker, come si diceva allora. Capitò qualche volta che dalla Camera andassimo insieme, Marco Boato e io, con la mia moto a seguire le udienze di quel processo che pesava sulla vita politica italiana. Allora la carcerazione preventiva in Italia poteva durare dodici anni – dodici anni! magari per poi scoprire che eri innocente – e quel processo e le iniziative politiche radicali servirono parecchio per uscire o quanto meno delimitare quello scandalo.

In aula indimenticabile fu il suo intervento durante l’ostruzionismo alla legge Cossiga. Febbraio 1981 e parlò oltre diciotto ore di seguito senza appunti e senza nessun supporto, sotto gli occhi freddi e sgradevoli di Nilde Jotti quando era lei a presiedere. Nilde Jotti i parlamentari radicali proprio non li sopportava e scatenava i suoi funzionari contro giornalisti di area che si permettevano di frequentare il suo palazzo. Vincino fu allontanato di forza su richiesta della Jotti che presiedeva perchè stava facendo qualche schizzo dalla tribuna stampa. In base a una logica illogica, si potevano prendere appunti ma non fare schizzi.

Marco Boato parlava per ore mentre il freddo di quel febbraio 1981 circondava Montecitorio. Diciotto ore sono tante anche fisicamente. Aldo Ajello anche lui fra i parlamentari impegnati in quei giorni nell’ostruzionismo, mi spiegò dopo il suo intervento – anche quello di parecchie ore – che il segreto per lui erano stati gli stivali perchè dovevi stare in piedi senza appoggiarti. Anche quello era vietato. Marco comunque riuscì in una cosa che oggi reputo impossibile. Parlare diciotto ore su un tema, senza mai uscirne – anche su questo Nilde Jotti era feroce come una cattiva maestrina e quell’ostruzionismo lo aveva preso come un affronto personale – fu una lezione di parlamentarismo democratico e di diritti civili. La notte eravamo in pochissimi, mezzo storditi dal sonno, e vedere Marco che continuava a parlare teneva su anche noi in tribuna.

C’è però un piccolo ricordo che mi lega a Marco e alla sua umanità sulla quale si fonda tutto il suo essere politico da sempre. Eravamo a un convegno alla Camera quando ci arrivó la notizia della tragica morte di Carlo Rivolta, un giornalista che da giovanissimo era entrato nella prima Repubblica di Scalfari. Su Carlo Rivolta, troppo spesso e troppo rapidamente dimenticato, ci sarebbe da raccontare molto, lui con il suo Guzzi California bianco, cromatissimo e bellissimo e la sua straordinaria abilità di cronista che si immergeva nella realtà e forse fu proprio questo a ucciderlo. Eravamo entrambi suoi amici e la faccia di Marco Boato, in quell’aula affollata, alla notizia, i suoi occhi improvvisamente appannati e la voce rotta mentre me lo dice, quelli non li ho ancora dimenticati.

La Stampa

“Fermo di polizia: ostruzionismo, perche’?” – Intervista di Carlo Romeo a Marco Boato

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