Gira sul web un video di bambini piccolissimi. Avranno tre anni e come adulti si servono da soli al self service della mensa del loro asilo. Si intuiscono maestre e maestri che li aiutano e li controllano. Difficile dire se li controllano aiutandoli o al contrario li aiutano controllandoli, ma in ogni caso sono immagini che colpiscono e pongono degli interrogativi perchè quei bambini sono il futuro del Giappone.
Di contro i bambini italiani sono prodigio di impunità in un Paese che forse ama troppo i suoi figli, amandoli quindi forse male. Ovviamente le generalizzazioni sono difficili, soprattutto se si parla di popoli e paesi, però alcuni fatti restano. Il recente mondiale ha dimostrato – lo faceva notare Gramellini sul Corriere qualche giorno fa – che il Giappone ha vinto il campionato dello stile e della buona educazione. I giocatori lasciano in perfetto ordine gli spogliatoi e è cosa insolita il rispetto per chi lavora e non è raro vedere il gusto di umiliare chi si pensa sia meno di te. Meno male che poi ci pensa la vita ma la via giapponese sarebbe più semplice.
Tornando ai bambini, le chiavi di interpretazione sono due. La prima è un irreggimentazione generazionale che da subito impara il rispetto delle regole per poi portarlo nel DNA per tutta la vita oppure – è la seconda chiave – reagire e diventare altro, fuori dagli schemi. Conosco poco il Giappone e me ne dispiace. E’ isola e terra di isolani. E’ terra antica dove l’onore e il rispetto sono determinanti dalla nascita alla fine della vita. Regole imparate fin da piccoli appunto che hanno portato il Giappone a una rivoluzione esistenziale quasi ormai un secolo fa quando persero la guerra e l’identità. Si sono ricostruiti una nuova realtà ma le antiche strutture , al di là delle apparenze, sono ancora lì molto forti. E’ terra di samurai e di kamikaze. A proposito di questi ultimi, per capire meglio il Giappone bisognerebbe chiedersi perchè – secondo i filmati sopravvissuti – prima di partire per il loro ultimo volo indossassero il casco protettivo. Forse ci sarà stata una ragione tecnica oppure sarà stato l’antico rispetto delle regole. Vallo a sapere. Resta sullo sfondo la domanda: meglio un bambino giapponese autonomo e indipendente ma dall’espressione più concentrata – o forse triste – o il bambino africano pieno di gioia di vivere e privo di tutto tranne che della sua allegria?
