Partiamo dal film e poi si torna con i piedi per terra. Il film è bello. Sidney Pollack, anno 2005, il suo ultimo film. Nome e annata sono una garanzia e in più, visto il tema, sembra girato ieri. Sean Penn straordinario e anche Nicole Kidman in qualche modo si difende anche se non è chiaro – vista la sua maschera monoespressiva – se abbia problemi di recitazione o di mobilità facciale, conseguenza quest’ultima forse di eccessi di modifiche meccaniche alla struttura del viso, cosa che a volte la rende simile per espressività al frontale di un Maggiolino prima serie.
La storia. L’Onu è protagonista non solo come location, con una interprete – lei – che ascolta una conversazione per caso su un attentato a un capo africano ex buono poi travolto dal potere e diventato un macellaio della sua gente. Fra le righe, non è difficile riconoscere il profilo di Robert Mugabe e dello Zimbabwe, l’Africa insomma di inizio millennio, anche se lo Stato africano è inventato. Lei, originaria di quel Paese africano per circostanze note solo agli sceneggiatori, cerca di avvisare un suo fratello che è ancora in Africa di questo minacciato attentato poi scendono in campo le istituzioni con Sean Penn che coordina, per i servizi segreti americani, la incolumità dei capi di stato presenti all’ONU. Infatti il leader ex buono poi macellaio deve intervenire all’assemblea e lì si prospetta l’attentato. La trama si svolge complessa ma regge, nonostante sempre i suddetti sceneggiatori decidano che Sean Penn è vedovo inconsolabile (forse) da meno di un mese. Alla fine – ovviamente non raccontabile quella del film – il target è portare il leader africano davanti al Tribunale dell’Aja che è il vero grande protagonista di tutta la vicenda.
Lo stesso Tribunale, per intenderci, dove, andando alla realtà, dovrebbero comparire Putin, Kodylov e soci ma anche Khamenei e i suoi tirapiedi lordi del sangue del proprio popolo. E a me fa un po’ effetto trovare in un film come protagonista una realtà che mi è capitato di seguire dal suo concepimento. Perché l’idea di fondo era di Marco. Qualcosa ricordo traspariva già dopo l’incontro che ebbe a Ouagà con Thomas Sankara, a metà degli anni ’80, con quello che stava succedendo in Africa. Sankarà sarebbe morto qualche mese dopo, assassinato dal suo più fedele amico, improvvisamente affascinato – secondo la stampa africana – dalla moneta francese, sicuramente più solida di quella burkinabè.
Marco ne rimuginava – o almeno per la prima volta lo sentii rimuginare – mentre a Abidjan aspettavamo, dopo quell’incontro, l’aereo che ci avrebbe riportato a Roma via Parigi, con Giovanni Negri, Gianfranco Dell’Alba e gli operatori televisivi che erano con me, Lamberto Borsetti e Francesco Chiocci. Poi ci fu la guerra in Yugoslavia e Marco, che quel fronte lo aveva vissuto in prima persona, ripartì sull’ipotesi di un tribunale internazionale che avesse come target i crimini riguardanti la comunità internazionale nel suo insieme come il genocidio, i crimini contro l’umanità e il crimine di aggressione.
Dopo neppure dieci anni, grazie all’impegno di chi sposò in tutto il mondo quella battaglia – una battaglia, quella sì, che meriterebbe un film – e non a caso a Roma, si firmò in Campidoglio la sua istituzione. Da allora quella Corte è diventato uno strumento funzionale – ovviamente se innescato – contro i macellai della propria e della altrui gente. Ovviamente quando si evoca la Corte internazionale dell’Aja del ruolo che ebbe Marco non se ne parla praticamente mai. Bene così, l’importante era farla.
Ps. Il Ministro Tajani sa perfettamente come funzionano le pratiche per attivare la Corte e ha gli strumenti per farlo. A Odessa, a Kiev, a Mosca stessa, a Teheran, ci sono persone che hanno fiducia in chi è da questa parte del mondo e che non se la cava certo con una lamentela piagnucolosa nei confronti dei rappresentanti diplomatici dei macellai.

