I marinai bretoni – cioè fra i migliori marinai del pianeta – ripetono spesso che pochi possono dare del tu al mare e quei pochi non glielo danno. Basta peraltro vedere l’evidente imbarazzo di gente come Giovanni Soldini o Matteo Miceli, quando si sentono definire lupi di mare. Il mare infatti – come la montagna – insegna in primo luogo l’umiltà di fronte alla grandezza e alla forza della natura. Questo insegnamento resta dentro anche se purtroppo non sempre impedisce quello che tecnicamente a bordo viene chiamato “il momento del coglione”, fenomeno temporaneo e rischioso che capita e è capitato almeno una volta a chiunque vada per mare. Nonostante questo, o forse soprattutto grazie a questo, questo insegnamento aiuta anche a accettare i propri limiti.
Chi va per mare infatti sa bene che è normale, se non doveroso, per esempio sbagliare clamorosamente un ormeggio davanti a un folto e attento pubblico in banchina mentre invece, per una insondabile legge del mare, l’ormeggio splendido e abilissimo ti capita invece di farlo quando in porto non c’ è anima creata. Allo stesso modo, non si va per mare se, almeno una volta, non cade il cellulare in acqua o se non si dimenticano, dopo avere mollato gli ormeggi, scarpe, cime e suocere in banchina. O ancora se la passerella – elemento subdolo e molesto ma di fatto necessario – non tradisca vuoi per instabilità, vuoi per tasso alcolico avanzato dell’utente, comportando una entrata in acqua più o meno elegante. Chi scrive, oltre a essere stato testimone a decine di episodi del genere, ha lasciato a oggi quattro cellulari sul fondo tirrenico e tre su quello adriatico nonché, causa passerella, un bagno a testa (in Adriatico – in dicembre che é pur sempre una sensazione forte, soprattutto se devi risalire da solo in banchina – e nel Tirreno a primavera di una vita fa) quindi sa bene di cosa parla.
Il medesimo scrivente uno notte ha inoltre visto sparire nel nulla e nel buio, all’Elba, un espertissimo skipper toscano, per aver mancato la passerella di un buon mezzo metro, dopo una piacevolissima serata in pozzetto, quando gli unici alcolici sopravvissuti a bordo di una ex nutrita schiera erano ormai solo i disinfettanti. Non ci fu neppure in quella occasione, grazie agli dei del mare, nessuna conseguenza (tuffi del genere comportano non poco pericolo), se non l’esaurimento, a pelo d’acqua e nel buio, in un rapidissimo ritorno di lucidità, di almeno quattro mesi dell’intero calendario cattolico fra santi e beati.
Chi va per mare, sa bene tutto ciò e se ne fa una ragione. sa altrettanto bene che Bernard Moitessier perde il Joshua in un momento di disattenzione e si divide fra rabbia e lagrime nel raccontarlo. Eric Tabarly, altro grande mito del mare, muore invece quasi settantenne dopo una vita da marinaio, solo perché quella notte al largo, con un maraglione di prua, non si era legato.
Di esempi del genere se ne potrebbero fare tanti altri ma quello che conta è che il mare insegna ogni giorno a crescere, a affrontare se stessi, a sbagliare e soprattutto con una po’ di fortuna a imparare dai propri sbagli, a saperli accettare sapendo che è solo l’esercizio che fa il maestro. Il che non è scuola da poco.
