Logbook 277 – Staino, Cossiga, Marco e la Storia

Fra gli opinionisti italiani che osservano e commentano il Paese e la sua gente ogni giorno sui giornali, Staino ha un posto particolare, di primo piano. Lui infatti ci accompagna – verrebbe da dire da sempre – con la sua serenità apparente mentre i messaggi che lancia – soprattutto a quella che una volta veniva definita sinistra – sono spesso di sintetica pesantezza. Sotto certi aspetti ricorda, nel suo modo di raccontare, un altro straordinario raccontatore di vite quotidiane come Mort Walker, cui la mia generazione deve Beetle Bailey, il cui contesto era invece la vita in caserma e erano i tempi del Viet Nam.

Staino ragiona, sorride, si incazza ma sempre nella dimensione umana della persona esterna ma attenta alla politica con in più, rispetto a ElleKappa e a Altan che pure sono geniali, una bonomia quasi guareschiana. In realtà Staino è unico e Bobo con i suoi figli che sono la voce dell’innocenza quindi della ragione, con i salti mortali e le rasoiate delle su conclusioni sono qualcosa di unico. Ogni volta che la Stampa capisce che la prima pagina senza Staino è una prima pagina mozzata, è un regalo per tutti i lettori e se sei di rassegna stampa in radio ti aiuta a avviare meglio il racconto dei quotidiani.

L’occasione per mandare un abbraccio a Staino –  che non conosco direttamente ma con cui abbiamo amici in comune che lo conoscono bene, come Massimo Caviglia – è la vignetta che girava ieri su Instagram e che vedete riprodotta qui sotto. Il 1 Maggio e il 2 maggio, due date che sarebbe stato opportuno legare di più. Così vengono in mente tutti i tentativi di dialogo che Marco mise in atto con il Pci e con i suoi molteplici e confusi eredi. Oggi forse può essere chiaro che Marco sarebbe stato una risorsa risolutiva, anticipatrice, rispetto a quello sia al Pci e a ciò che è venuto fuori dopo. 

Torna in mente un flash, una Festa dell’Unità, Reggio Emilia inizio Anni 90. Marco venne accolto dalle gente con tanto affetto come fosse uno di loro mentre per i dirigenti di partito – che pure lo avevano invitato – sembrava fosse un lontano parente, fonte regolare di imbarazzo. Arrivammo a Reggio Emilia con la solita auto a noleggio a duecento chilometri orari, lui e io e per Radio Radicale un Francesco ventenne che mai avrebbe immaginato di diventare qualche decennio dopo (più che meritatamente) vicedirettore di Repubblica. Eravamo ovviamente in ritardo.

Mentre eravamo dopo Bologna, il problema divenne trovare un albergo perchè al solito Marco si era deciso all’ultimo a partire e a fermarsi. L’albergo più adatto a Reggio Emilia sembrava fosse l’Astoria che però era pieno. Lo chiamavamo e  la reception ci chiedeva continuamente di richiamare mentre cercavano una soluzione per recuperare tre camere. Mentre, tra una telefonata della reception a me e una mia alla reception, stava ormai nascendo una solida amicizia, Francesco intanto aveva problemi  suoi con i tecnici della radio che dovevano registrare la serata. Marco invece (seduto al solito davanti con tutto il sedile tirato indietro e che dietro ci fosse qualcuno o meno non ho mai visto lo condizionasse) era al telefono in piena pesante discussione da venti minuti con Cossiga, ancora al Quirinale ma già picconatore militante. 

Siamo a una decina di chilometri da Reggio Emilia quando chiama Sergio dal Gruppo a Montecitorio. Sergio era, oltre che il braccio destro e sinistro di Marco, anche la sua personale torre di controllo quando lui era in giro, cioè praticamente sempre. Preoccupato per le nostre sorti e per il fatto che dallo staff del Quirinale lo stavano ossessionando per rintracciare Marco perchè la famosa “batteria” non riusciva a trovarlo, Sergio mi chiede come va. Io rispondo bene, che Marco non risponde perchè al telefono con Cossiga quindi problema risolto e aggiungo, in un momento di autoironia collettiva “stiamo tentando di entrare nell’Astoria”. 

Marco che aveva per natura e abitudine un ascolto multiplo e un senso dell’umorismo relativo soprattutto su certe cose, smette di parlare al telefono, si volta verso di me, mi guarda e poi mi manda con aperta e sonora convinzione a quel paese per poi riprendere a parlare normalmente al telefono con uno “Scusami Francesco. Qui fanno gli stronzi”. Amen.

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