Logbook 287 – Santi

I santi si aggirano fra noi anche se è difficile accorgersene. San Francesco di Sales per esempio venne proclamato santo relativamente presto e un suo vecchio aristocratico amico, ormai molto anziano, alla notizia della proclamazione pare abbia esclamato “Santo lui? Non è possibile! Abbiamo pranzato insieme tante volte”. Con i santi capita.

Di santi dichiarati  o quasi ne ho conosciuti due e un terzo ragionevolmente sarebbe giusto lo diventasse più tardi possibile, visto che ha cominciato avendo come parrocchia una strada di Torino e proseguendo per tutta la sua vita in quella direzione. Il primo santo conosciuto è stato Giovanni Paolo II. Veniva a Introd in vacanza fra le montagne valdostane che amava molto fra gente di montagna che ne rispettava la sua privacy e il suo riposo di qualche giorno. Sotto gli occhi vigili della Gendarmeria vaticana e di Albert Cerise, capo della Forestale in Valle e sua guida per i sentieri e le cime, era il momento in cui riprendeva fiato. Non era inconsueto girare un sentiero e trovarlo su una poltrona di tela che leggeva davanti alle montagne. Che io sappia quando capitava che succedesse, mai nessuno si azzardò a avvicinarsi. Oggi non so se sarebbe lo stesso.

Arrivava in elicottero dopo essere atterrato a Torino e nel comitato d’onore insieme alle Autorità locali e ai comandanti dei Carabinieri, della GdF e al Questore veniva invitato a essere presente  dal Presidente della Regione anche il direttore della Sede Rai valdostana. L’elicottero scendeva nel grande prato e lui si fermava a ricevere il saluto di tutti e per tutti aveva una battuta, una parola. Mi colpì il fatto che con me riprese un argomento lasciato in sospeso nella stessa circostanza della visita dell’anno prima. Due battute ma che dimostravano come fosse attento a tutto, presente a tutto. Una notte poi con Albert – con cui ero diventato amico, in Valle questa parola pesa – e con Monsignor Stanislao sotto un diluvio incredibile andammo a controllare se un enorme spiazzo, prospiciente alla sua abitazione  del papa, potesse ospitare un maxischermo con cui il giorno dopo – era domenica – si sarebbe collegata una comunità mi pare africana. Rientrammo dopo avere verificato a lungo tutte le coordinate, come se avessimo nuotato in un lago alpino tutti e tre.

L’altro santo o qualcosa di molto simile era Monsignor Di Liegro, scomodissimo prete storico romano che trasformò la Caritas in una macchina del bene, operativa e necessaria in una Roma che cominciava sentire una immigrazione dai Paesi più poveri della terra e fino ad allora sconosciuta. Difendeva i primi immigrati arrivati e per questo un giorno un tassista romano lo fece scendere dal taxi. Immediatamente lo chiamammo e lo invitammo a Teleroma per una diretta. A quei tempi eravamo gli unici a usare il filo diretto – cioè le telefonate degli ascoltatori – senza filtri. Chi prendeva la linea, parlava per quaranta secondi. Dopo averlo intervistato – eravamo ancora alla Balduina – aprimmo le linee e per una mezz’ora furono insulti. Per inciso, quei programmi erano antesignani molto stretti, a ben vedere, degli odierni social. Sia come sia, ci arrivò addosso un diluvio di telefonate di insulti in romano stretto. Una particolare telefonata colpì però entrambi. Una persona – mi pare una signora – ci disse arrabbiatissima “Basta! È ora di finirla con tutti questi portoricani a Roma”. Noi lì per lì glissammo in onda ma in macchina, finito il programma, ci ragionammo sopra perchè la cosa ci aveva colpito. Di portoricani a Roma infatti – era la seconda metà degli anni ‘80 – a malapena forse c’era l’ambasciatore e il personale della relativa ambasciata. Che senso avevano dunque i portoricani evocati?

Ce la spiegammo così. A quei tempi, la gente viveva attaccata alla tv e i canali erano i sei Rai e Fininvest più quattro cinque locali. Nei film e nei telefilm americani che affollavano i palinsesti, i portoricani rappresentavano molto spesso gli immigrati cattivi. Probabilmente era un modo per definire, attraverso un transfert, quei primi immigrati di cui Roma non sapeva neppure la provenienza. Io rallentai e lo guardai. Lui prima sorrise poi mi sembrò preoccupato, inquieto. Mi parlò allora di suo padre emigrato quando lui era bambino e di come lo ritrovasse ogni giorno in ognuno di quelli di cui si occupava. Don Di Liegro – Luigi anche lui a pensarci – conosceva bene la sua città e sapeva prevedere il suo futuro perchè viveva fra la sua gente. Lo lasciai davanti a dove abitava, forse la Caritas e forse Trastevere, non ricordo più. Rimisi in moto e mi diressi verso casa nella notte romana.

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