Logbook 313 – Ombre napoletane

A Via Marina, Palomar sta girando una fiction. Transenne autarchiche, manifesti fasulli per ragioni di sceneggiatura ma assolutamente credibili sono comparsi su tabelloni veri. Evidentemente la storia é legata a una campagna elettorale e l’attore che rappresenta il candidato é quanto mai realistico. Per un istante sia Antonio che io cadiamo nell’equivoco, tanto la cosa sembra vera. Il candidato gli sceneggiatori hanno deciso di chiamarlo Tarallo e io che i giornali li leggo e tendo a ricordarli mi chiedo se sia un caso o una perfidia ambientale nel contesto televisivo. Due sorveglianti inesorabilmente locali indossano, su un abbigliamento caratteristico del luogo, gilet verdi che li qualificano come addetti alla sicurezza del set. Sembrerebbe sia, a guardarli bene, oltre che dal look anche dalla tranquillità e dai tatuaggi che ostentano, una sorta di comprensibile e legittimo chilometro zero della sicurezza. Ragionevole certamente dal punto di vista della produzione e altrettanto certamente efficace.

Entri da Pedone, sesta generazione di ottici quindi il più antico a Napoli e forse in Italia. Chiedi una informazione e rimani piacevolmente stupito da una serie di spiegazioni chiare, precise, dettagliate. Un vecchio avvocato napoletano, con eleganza antica, ti comunica che in questo negozio sono dei grandissimi esperti ma questo é evidente. Fa comunque piacere ascoltare il modo con cui il titolare e suo figlio spiegano, illustrano, consigliano fra bifocali e progressive. Se non fosse che domani si parte, sarebbe da ordinare subito quel paio di spettacolari Lindberg – le Ferrari degli occhiali, dice – ma sia mail che telefono funzionano quindi hai visto mai. Se vieni da Roma dove la gentilezza e la professionalità dei commercianti esiste ma é rara, rimani piacevolmente stupito. Si vede il mestiere quando lo fai – e lo fai bene – da sei generazioni, questo é indubbio.

Con Guido e suo figlio, appena tornato dal grand tour – Turchia, Balcani ecc. – si va alla Cappella Sansevero. Mai stato prima e il posto effettivamente può spiazzare. Oltre a capolavori di arte e di tecnica come il Cristo velato e la rete di marmo della statua del Disinganno, avverti l’aria di qualcosa nascosto che sfugge. Non sono solo le storie che si raccontano su Raimondo di Sangro, settecentesco principe di Sansevero, alchimista, massone, imprenditore, inventore, mecenate e quant’altro, ma é proprio il senso di un codice sconosciuto che traspare in ogni cosa e nel suo insieme. Un soldato armato esce dalla sua tomba che sovrasta l’ingresso mentre gli affreschi sfondano il soffitto e le statue affollano i lati. Il principe aveva inventato delle fiamme colorate, blu verdi rosse, e sarebbe inquietante immaginare di notte questa sala illuminata solo così.

Ovviamente nel palazzo c’è anche un fantasma, la solita nobildonna uccisa, Maria D’Avalos, con il solito amante – un Carafa che leggenda vuole l’uomo più bello della Napoli di allora – dal solito marito geloso, Carlo Gesualdo, principe di Venosa. Il fantasma c’è, su questo non ci piove, ma al momento a noi non si manifesta. Si esce fuori e si esce con la testa nelle ombre di un labirinto, che poi era labirinto anche il pavimento originario della cappella. Un labirinto che forse avrebbe potuto essere la chiave di tutto, come ci direbbe un eco lontano.

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