Anni se non decenni credo che non rileggevo del sergente nella neve di Rigoni Stern. Lo ritrovo per caso e questa volta non lo evito. Rileggerlo però vale. Vale in tempi come questi, di guerre nella neve, la stessa neve che affrontava a ventidue anni il sergente con i suoi alpini del Vestone. Sarà proprio attraversando Russia e Ucraina a piedi a quaranta gradi sotto lo zero che riuscirà a rientrare in Italia, scoprendo che di quella vicenda russa era meglio non parlare, far finta insomma che chi tornava non fosse tornato neppure lui. Erano le scarpe di cartone e gli alpini mandati genialmente lì perchè dovevano scalare il Caucaso ma prima del Caucaso – i gerarchi e i vertici militari non lo avevano capito – c’erano migliaia di chilometri di steppa, roba per la fanteria non per rocciatori e sciatori che non vedevano all’orizzonte neppure una collina.
Così il racconto fatto di tanti piccoli momenti si snoda e ti viene freddo a leggerlo. Rivedi Marco Paolini – forse il miglior uomo di teatro che in questo momento abbia l’Italia – che lo racconta a modo suo. Il suo sergentmajur che cerca di sopravvivere e far sopravvivere gli altri suoi compagni, Paolini lo aveva raccontato magistralmente, forte solo di una coperta, un pullover militare, un microfono a archetto e un servo di scena.
La guerra è tutta lì. In una terra che invadi – come accade a Rigoni Stern e non solo a lui – convinto di avere ragione dalle trombonate di regime, per poi scoprire che quella terra non è tua, che la povera gente è povera gente ovunque, che gerarchi e imboscati restano al caldo e che le balle di radio, cinema e giornali sono solo farsa tragica.
Il racconto è diretto, veloce, ma la memoria stenta nel mettere a fuoco e scrivere orrori, fatiche, dolore apparentemente intollerabili e non tollerati da molti. Una generazione di giovani – quelli sopravvissuti – che forse proprio per questo è riuscita in qualche modo a ricostruire un Paese dalle sue macerie, senza però suo malgrado riuscire a dare quel senso di popolo, necessario per costituire una nazione realmente unita e non una congrega di fazioni e di interessi tanto simile, per molti versi, alla Firenze di Dante Alighieri.

Chissà, tutta questa benevolenza italiana per l’invasore criminale russo deriva forse dal fatto che noi siamo stati invasori: in Francia, in Grecia, in Ucraina e Russia, in Eritrea, in Etiopia. Che vergogna, che tradimento, perché è di questo che parla l’art. 11 della Cost., della guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli, non dell’aiuto ai popoli offesi nella loro libertà. E ci mancherebbe altro! Purtroppo non lo si capisce.