Logbook 12 – Oggi l’assurdo

Alba a Chiesanuova e il mare, oltre le colline, gli dà una luce infinita per sfumature e colori. Sono giochi di colore che fanno pensare a Dorazio, mi dico, mentre cerco lo zucchero per il caffè, guardando la vetrata della cucina. Perché Piero Dorazio è un pittore dove i colori sono protagonisti e non strumenti dei suoi quadri, esattamente come questa alba.

Lo incontrai una volta – trent’anni fa? – a Todi, nel suo studio che poi era la cappella sconsacrata di una pieve umbra, quindi già di per sé sinonimo di pace, di serenità. Dovevamo intervistarlo e mi disse nel piazzale, appena arrivati con l’auto, di aspettarlo nello studio. Entrammo nella cappella e, mentre gli operatori iniziavano ad allestire il set, vidi in fondo alla chiesa un uomo molto anziano – vestito e cravatta neri, camicia candida come i suoi capelli – seduto su una sedia con una cartella di pelle scura, poggiata sulle ginocchia, che le sue mani controllavano saldamente.

Guardava fisso il vuoto davanti a sè, tranquillo. Si girò verso di noi e ci sorrise da lontano così mi avvicinai per salutarlo. Rispose in francese. Il mio francese è oggettivamente un crimine contro l’umanità ma la sua gentilezza mi spinse ad usarlo. Lui rispose chiedendomi chi fossimo, che facessimo lì. Erano domande segnate dalla curiosità di una persona anziana ma senza nostalgie, nei toni. Solo curiosità, vitale, concreta, insomma. Appariva una persona non dimessa ma apparentemente semplice, forse per la gentilezza con cui si esprimeva. Mi scusai del mio francese e lui sorrise un po’ ironico. Parlammo per un po’ finché arrivò Dorazio. Mi disse sorridendo: “Vedo che hai già conosciuto Eugène Ionesco”. Confesso oggi che sulle prime – forte di una solida ignoranza cui peraltro sono affezionato – pensavo che Ionesco fosse già da tempo scomparso dal mondo anche se presentissimo sulle terze pagine dei giornali e nelle biblioteche di tutto il mondo. Invece, nonostante l’età, era più che mai vigile, bastava notare l’attenzione con cui ascoltava, sempre controllando la serviette di pelle nera, sulle ginocchia, che probabilmente conteneva i suoi ultimi appunti.

Insomma era Eugène Ionesco cioè, a quei tempi – e anche ora, per chi almeno legge libri – uno dei grandi del pensiero, della letteratura, del teatro del secolo scorso: un genio riconosciuto insomma e per di più un genio europeo. Aveva destrutturato il linguaggio teatrale, lui, rumeno per nascita, francofono per formazione, europeo per cultura e convinzione. Era anche abile maestro nel difficilissimo gioco del ridere di noi stessi. “Dove non c’è umorismo” ha scritto “non c’è umanità; dove non c’è umorismo (questa libertà che si prende, questo distacco di fronte a se stessi) c’è il campo di concentramento” e sapeva bene il peso di entrambi gli argomenti.

Oggi Ionesco dovrebbe essere considerato uno dei numi tutelari di questo strano periodo in cui proprio quel teatro dell’assurdo che lo rese celebre si ripete di fatto ogni giorno.

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