L’ultima volta che ci siamo sentiti con Stefano – ormai qualche settimana fa – lui era già in Donbass per il Tg1. So come lavora da inviato Stefano Belardini. È uno straordinario operatore che ha il vantaggio di essersi formato in Rai come montatore e quando cerca una inquadratura sa già anche come potrebbe essere utilizzata da chi monterà il servizio. Sembra una cosa ovvia ma non lo è poi così tanto in tv dove spesso i giornalisti scrivono i pezzi senza alcun collegamento con le immagini girate e l’insieme ne risente, anche perché non a tutti è chiaro che al cervello l’immagine arriva prima della parola, che piaccia o no.
Il fatto è che sono pochi i legami così forti come quelli che legano una troupe tv nei teatri di guerra o di crisi. Si creano legami e si gioca in squadra – o almeno lo si dovrebbe fare – perché si è in tutti i sensi sulla stessa barca. Stefano è uno deciso, con le idee chiare, ma che difficilmente trascende anche perché quando si lavorava insieme ero più portato io per questo genere di reazioni. Una volta dovemmo aspettare al posto di polizia dell’aeroporto di Beirut cinque ore prima che ci riconsegnassero il Cartoni – mitico cavalletto per le telecamere, pesantissimo – con il suo contenitore che credo avessero scambiato per un cannone portatile. Quattro ore in cui la capacità di Stefano fece sì che non finissimo in carcere – per colpa mia – e ci bevessimo alla fine – per merito suo – con i poliziotti (che peraltro finsero per tre quarti del tempo di non parlare inglese e italiano e invece parlavano entrambe le lingue) una decina di dolciastre bibite rigorosamente analcoliche, accompagnate da tonnellate di inquietanti patatine. Lui ha anche un profondo senso della fede e mi capitava spesso di sentirlo leggere piano il Vangelo, la sera, al piano superiore del letto a castello. Abbiamo dormito spesso, in giro per il mondo, nei letti a castello e anche qui andavamo d’accordo perché io preferivo dormire a contatto con la terra mentre lui – anche in questo molto più spirituale di me – tendeva invece verso l’alto. A Nyala il letto a castello era in un compound che dopo un paio di giorni scoprimmo essere una sorta di gigantesco forno elettrico, grazie alle modifiche creative del sedicente elettricista della zona. Ci salvò la vita – a noi ma anche all’elettricista medesimo perché a un certo punto pensai lo volesse uccidere – Vincenzo Di Dato che seguiva la missione italiana e che di logistica, da buon alpino con lievi venature della Sassari, se ne intendeva parecchio.
Altra cosa che abbiamo in comune con Stefano, a proposito di sonno, è una certa comune consistenza nel respiro notturno. Quando uno dei due andava oltre il limite, lo si svegliava ma spostava poco anche perché, dopo due giorni di convivenza, ci adattavamo tranquillamente. Noi. Se c’erano dei terzi a dormire con noi, meno. Devo dire che una volta svegliato di soprassalto dal rumore, lo svegliai dicendogli di non esagerare, per poi scoprire la mattina dopo a colazione, nella piccola mensa sotterranea di Camp Vianini, che a svegliarmi non era stata la sua sonora ossigenazione notturna ma un rudimentale, rumoroso (ma grazie a Dio innocuo) ordigno dei talebani, esploso davanti alla porta carraia in piena notte.
Ricordo la fatica mostruosa – lui che non ama i primi piani e le luci della ribalta – per convincerlo a fare lezione di tecniche di ripresa ai giornalisti bosniaci nelle settimane di Sarajevo, organizzate dalla Farnesina (e senza l’intervento di Benedetta de Mattei che ne curava l’organizzazione dubito che ci sarei riuscito) o a quelli afgani organizzati dalla Rai su richiesta di SMD e del Governo. Poi ci sono i vicoli strettissimi del campo palestinese di Sidone, dove il nostro primo ingresso fu pittorescamente salutato quella mattina da alcuni colpi di pistola esplosi, non lontano, a fini dimostrativi. Altro aspetto che mi ha sempre colpito di Stefano è la sua immediata, incredibile capacità di comunicare con i bambini, ovunque fossimo perché ovunque i bambini sono uguali. Se c’è un gruppo di bambini, orologio alla mano – lo cronometrai una volta per curiosità scientifica – dopo massimo centottanta secondi lui sembra il loro vecchio zio conosciuto da sempre. Questione di carattere, certo, di sensibilità ovviamente ma anche di un certo allenamento, visto che ha cinque figli e ormai qualche nipote.
Fiorella, la moglie che lui conquistò portandola a vedere Shining da giovanissimi adolescenti (cosa che rientra nel Guiness delle tecniche di rimorchio ma che a tutt’oggi non gli è ancora stata perdonata dalla medesima fanciulla, avendoci messo un paio di mesi per riprendersi dal film), era incinta del quinto figlio mentre tornavamo – credo fosse il 2005 – dal Darfur. Air France con atterraggio a Fiumicino a mezzanotte e mi accorgo subito, per la verità insieme a una graziosissima hostess, che lui non sta bene. Termometro, febbre alta (senza panico perché il Covid era lontano), Stefano era stravaccato sulla poltrona, prostrato dalla febbre ma preoccupato per il suo rientro a casa e per il nascituro. Atterriamo al famigerato Molo B di Fiumicino – luogo al cui confronto Rebibbia sono le Orsoline – e chiamo Luciano Onder. Lo svegliamo, certo, ma Luciano è una persona che capisce, una persona di buona volontà nel senso più proprio del termine. Gli spiego la cosa e i rischi per Stefano di tornare a casa in quelle condizioni. Luciano si attivò immediatamente e dopo due ore, in piena notte romana, eravamo al reparto Infettivologia del Gemelli per i relativi accertamenti, dove restò cinque giorni (con un mio pigiama, visto che lui abita cinquanta chilometri a sud della Capitale e i rifornimenti erano problematici). Gli accertamenti andarono bene e poté rientrare in sicurezza a casa senza rischi.
P.S. Mi chiamato poco fa. Domani torna in Donbass. Un grande abbraccio.

