Corre veloce il treno e le terre etrusche corrono via anche loro. Nuvole grigie, gonfie di pioggia, danno una luce strana al profilo sullo sfondo dei Monti Volsini e dei Monti Cimini. Ogni tanto una casa di campagna o un paesino compaiono e ti dicono che in fondo forse non sarà il Paese più bello del mondo ma se la gioca con chiunque altro con buone possibilità di vittoria.
É bello, insomma. Eppure – il vagone non è molto affollato – nessuno guarda fuori. Sono stato mezz’ora a guardare oltre il finestrino ma ero praticamente l’unico. Gli altri infatti non hanno mai alzato gli occhi da telefonini e pc. C’è solo una ragazza che studia su un libro di carta e quasi l’abbraccerei per la commozione. Segna anche le pagine diligentemente con la matita – è un manuale di qualcosa – sottolineando alcune frasi, con un righello. Il resto è tutto sguardi ipnotizzati da display.
Nessuno insomma ha visto cosa c’è fuori di qui, fuori di noi, e io mi chiedo, mentre il treno ci porta come fossimo dei pacchi, come finirà la scrittura, il pensiero, la poesia, l’arte e tutto il resto della mercanzia, insomma, se non siamo più colpiti dal bello, se lo cerchiamo surrogato in immagini fasulle che dimenticheremo presto. Si tratta in fondo di una realtà basata soltanto su due dei cinque sensi che abbiamo per percepirla. Mi torna in mente Robin Williams in quella che è forse la sua più bella scena – e ne ha fatte di belle – quando parla a un altrettanto magistrale Matt Damon dell’odore della Cappella Sistina.
Stiamo perdendo molte cose, noi che vivevamo da ragazzi o da giovani adulti il fascino del viaggio come avventura e non come trasporto. Il treno era magia e gli scompartimenti a sei posti insegnavano a conoscere, a parlare con degli sconosciuti. Oggi uno dei più bei racconti di Leonardo Sciascia, nato osservando una famiglia in un treno che da Roma portava tutti a Palermo, sarebbe forse impossibile. Personalmente ho perso il gusto quando viaggio così di annoiarmi, di incuriosirmi, di guardare e conoscere. Persino un viaggio scomodo come può essere scomodo quello su un C130 dove non ci sono vetri esterni ma buio e solo reti dove sedersi e capita che ti dorma addosso – o viceversa – per quattr’ore di volo, un paracadutista di novanta chili mentre le gambe cercano di trovare (e poi di mantenere) un gioco di incastri con quelle dell’alpino che ti siede di fronte a trenta centimetri, ecco persino un viaggio del genere riesce a dare delle esperienze (e qualche emozione, al di là delle complesse manovre di atterraggio che i piloti dell’Aeronautica utilizzano per evitare la sgradevole circostanza di fare da bersaglio a un RPG da terra).
Forse il viaggio che resta tale è proprio quello per mare, in barca, dove si viaggia appunto, inserendosi in un contesto fatto di natura e di tempo. Sembra esserci nell’uomo, come negli uccelli – sostiene Marguerite Yourcenar – un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove. Forse ha ragione, forse poi è tutto qui, compreso chi – soprattutto i più giovani – quell’altrove lo cerca sul suo display, anche se non ha neppure idea di quanto possa essere riduttivo. Insomma, francamente ci vorrebbe il mare.
