Logbook 77 – Lo specchio di Biancaneve

Serata al Rotary di San Marino per parlare di comunicazione. Con piacere, avevo risposto agli amici che me lo proponevano perché mi piaceva l’idea di farlo in quel contesto, esigente certamente ma altrettanto certamente familiare. Il titolo che avevo in mente aveva incuriosito molto gli organizzatori. Lo specchio di Biancaneve proprio perché pensavo a una chiave che avrebbe potuto legare in qualche modo la favola alla realtà di oggi

Entrare in argomento ha richiesto  comunque un passaggio obbligato cioè definire la differenza fra visibilità e immagine. E’ fondamentale farlo, quando si parla di queste cose, visto che confonderli è uno dei luoghi comuni più frequenti e più sbagliati. In fatto di comunicazione infatti, si tende regolarmente a considerare sinonimi questi due concetti che sono quanto più diversi possibile fra loro, allo stesso modo con cui spesso qualcuno confonde la furbizia con l’intelligenza, altre due cose che stanno fra loro come l’acqua con l’olio.

La visibilità dunque non comporta necessariamente una immagine positiva, nonostante quel che pensano i politici di tutto il mondo. Quanti personaggi dei teatrini televisivi e dei media del superfluo, per esempio, compaiono tutti i giorni in tutti i canali disponibili, ottenendo ampia visibilità? Si tratta di un numero molto alto – narcisisti, mitomani, truffatori, venditori di fumo ecc. compresi – ma quando ci si chiede se la loro immagine migliora per questo, la risposta è molto probabilmente no, se non vi è altro a costruirla. Saremmo realmente lieti di incontrare molti di loro, di riceverli nelle nostre case? Se invece, improvvisamente, in una stanza affollata entrasse Mina, che è a visibilità zero da diversi decenni, l’effetto sarebbe al contrario straordinario perché l’immagine di Mina lo è altrettanto, nonostante appunto la sua non visibilità. Dunque, meglio fare attenzione alla spasmodica ricerca di visibilità perché non sempre – quasi mai? – comporta una conseguente immagine vera, una immagine solida.

Da qui il passo ai selfie – epidemia recente ma estremamente diffusa – diventa breve. Perché occorre una foto, quasi che la propria parola di avere incontrato X oppure Y – per quel che può valere – sia insufficiente? Sono così importanti i selfie che possono persino apparire a volte apparenti testimonianze di non felici solitudini o di mediocrità conclamate? E poi personalmente mi sfugge il senso di una foto con una persona più o meno famosa che cinque secondi prima non sa chi sei e cinque secondi dopo altrettanto e alla quale, prima, durante e dopo, non importa assolutamente nulla di te? Un selfie può al limite attestare una casualità di circostanze, nel migliore dei casi, e non altro. Cosa che chi guarda peraltro sa bene. E poi che bisogno abbiamo di far sapere agli altri i nostri incontri – di provarli visivamente poi? – oppure i nostri spostamenti, la nostra vita quotidiana, elargendo informazioni strettamente personali, talvolta intime, che se ci venissero richieste a forza, difenderemmo con i denti? 

Chissà se poi qualcuno ricorda ancora i rullini fotografici da trentasei scatti  – o altrimenti quelli da ventiquattro. quando i soldi in tasca non erano tanti – che accompagnavano le nostre vacanze? Si tornava con in tutto cinque sei foto decenti ma erano immagini che fermavano la memoria, che diventavano patrimonio indimenticabile della vita di una persona. Restavano al massimo a quei tempi, e in tutta la vita di una persona, un centinaio di scatti e spesso in quella di tutta una famiglia poco di più, con i migliori dei quali tumulati in qualche album o in cornici qualche volta d’argento. Preistoria, certo, così  che però oggi abbiamo di contro migliaia di scatti fotografici al ritorno di ogni vacanza, scatti che poi regolarmente si affollano e si accumulano con altri, perdendosi nel caos di vecchi pc, di telefonini dispersi, di siti  e di mail rimosse, insomma nelle tante nuove tecnologie informatiche immediatamente obsolete. Forzando un po’ la mano – ma non moltissimo – viene in mente un famosissimo semiselfie, su cui Federico Zeri ha scritto pagine stupende. Lo realizzarono i coniugi Arnolfini con il contributo di Jan van Eyck – o viceversa se si vuole – creando di fatto un capolavoro che porta il loro nome e la magia di uno specchio che incrocia la prospettiva magicamente sia dal punto di vista della tecnica che dell’effetto.

In fondo noi abbiamo – come specie umana e a proposito di specchi – un disperato bisogno di far capire agli altri che noi ci siamo, che esistiamo, che abbiamo una identità. E’ forse una esigenza insita nel nostro DNA e cui non possiamo sfuggire, un bisogno più grande della fame, della sete, di tutti le necessità naturali perchè altrimenti ci si distrugge dentro. Si cerca uno sguardo, una memoria, una piccolissima traccia di sè che resti negli altri, che ci assicuri attraverso gli altri che esistiamo o che siamo esistiti realmente. 

C’è un però. Se siamo sicuri , però, che ci sia affetto, amicizia, amore – e le persone cui teniamo ce lo confermano ogni volta – le cose forse cambiano. La Regina Strega – o forse la Strega Regina? – di Biancaneve è sola. Ha bisogno del suo specchio per avere conferma che lei esiste e la sua bellezza in fondo per lei è soltanto un pretesto di conversazione con lui. La vera sua grande paura – una paura diffusa – è che lo specchio non rispecchi invece nulla.

Biancaneve invece di specchi con cui parlare di sé non ne ha. Non le servono perché intorno a lei – racconta la favola – esiste una comunità di giulivi minatori surrealisti e altamente specializzati in preziosi. Sarà pure una comunità composta da diversamente alti (cosa che in fondo poi in miniera fa sempre comodo) nonché caratterialmente complessa, con tutto quel che disneyanamente consegue ma è una comunità che c’è, che le sta accanto, che le vuole bene. 

Questo basta per sapere che esisti, che qualcuno sa che ci sei e  cerca di dimostrartelo come può, come sa, chiunque sia, comunque sia. In questi casi non servono a molto gli  specchi parlanti.

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