Sei anni e non sarò mai abbastanza riconoscente a Clemente Mimun. Ero per caso a Roma e Clemente al telefono mi disse che la situazione non era tanto bella e che i medici erano molto preoccupati. Vallo a trovare, dai, gli farà piacere. Lui stava già parecchio male fra età – ottantasei anni non sono pochi e passati come li aveva passati lui poi – e due tumori. Non lo vedevo da parecchio tempo.
L’ultima volta era stata, diversi anni prima, alla Panetteria. Ero già andato via da tempo e passai a prenderlo una domenica sera alla radio dove aveva finito la sua colluttazione settimanale con Massimo Bordin. Invece di cenare a casa – non ne avevamo molta voglia nessuno dei due – ci fermammo da Cecere, l’unica gelateria dove puoi mangiare un ottimo gelato con l’audio originale di Fontana di Trevi e relativi scrosci d’acqua in sottofondo. Da Cecere lui era viziato da fare veramente schifo. La proprietaria conosceva i suoi gusti e a lui si vedeva che facevano piacere quelle piccole attenzioni affettuose anche perchè fronte all’affetto e alla gentilezza abbassava la guardia, cosa non frequentissima per origine, carattere e abitudine.
Nato da un incrocio di montagne – all’ombra del Gran Sasso il padre, all’ombra del Gran San Bernardo la madre – aveva il profilo di aquila che hanno i montanari e la stessa caparbietà di chi ha nel dna la roccia. Dopo il gelato – solito mezzo chilo d’ordinanza a testa, stavo morendo – salimmo su fino in cima alla Panetteria e c’era la novità dell’ascensore che non ricordavo. Oddio, sembrava l’ascensore di Barbie perchè lo spazio nella tromba delle scale in quella vecchia casa era veramente poco. Dopo un orrendo viaggio si arrivava comunque al famigerato ultimo piano che per una vita lui si era fatto a piedi, alle ore più improbabili, quasi sempre con borse da viaggio che per quanto leggere – viaggiava sempre con poco bagaglio e non capivi mai se stava partendo o era appena arrivato – il loro peso lo avevano.
Entriamo e troviamo la vasca del bagno che perde e ha allagato mezza casa. In momenti del genere il primo riflesso era chiamare Sergio Rovasio. Di domenica sera, a Roma, un idraulico è cosa non esattamente comune ma Sergio in quei casi – forse era anche la scuola di Evi Papale, la sua prima segretaria quando era diventato deputato, praticamente quella donna era un’arma da guerra – diventava spietato. In ogni caso, più tardi – saranno state le undici – mi telefonò per confermarmi che l’idraulico era arrivato. Undici di sera a Roma di domenica e l’idraulico, chiamato due ore prima, c’era. Roba da crisi mistica. Come? non ne ho la più pallida idea però la gente gli voleva bene, sapeva che era dalla loro parte e che faceva politica con onestà e con coraggio, che per scelta non gestiva potere. Magari anche l’idraulico era uno fra quelli che si fermavano per stringergli la mano per strada. Non erano pochi.
Prima di salutarlo – mentre aspettava l’apparizione dell’ormai famoso idraulico e non gli passava neppure per la testa che Sergio non lo avrebbe trovato – gli lasciai il mio ultimo libro che gli avevo portato. Lui lo mise da parte e mi disse sorridendo che non credeva lo avrebbe letto. Visto che parlava di barche non mi aspettavo altro ma venne da ridere anche a me per come lo aveva detto. Poi mi accompagnò alla porta e aspettò che scendessi per le scale – neanche morto di nuovo con quell’ascensore – per poi scomparire dentro casa.
Vallo a trovare, mi aveva detto Clemente, quando ormai mancava poco. Chiamai Matteo che mi rispose vado a chiederglielo. Torna e mi dice ha detto che ti aspetta ma subito. Ero a Piazza Capranica quindi in cinque minuti ero lì. La sua testa c’era e non c’era ma con lui non sono mai riuscito a capire quando scherzava – cronicamente goliardico com’era – o quando era serio. Parlammo un po’ poi lo lasciai perché lo vedevo stancarsi rapidamente, lui che poteva fare – e lo aveva fatto, ne sono reduce diretto – quattro giorni consecutivi in tv senza dormire, in onda h24 davanti alle telecamere, altro che Enrico Mentana, scherziamo.
Viaggiare con lui in macchina poi era un incubo. Ovviamente non aveva la patente ma ti doveva dare lui tutte le indicazioni. Io guido chi guida, diceva, mentre chi guidava – non eravamo tantissimi in realtà a farlo – bestemmiava piano in tutte le lingue conosciute e sconosciute. Non si poteva scendere mai sotto i centosettanta altrimenti manifestava insofferenze verbali pesanti e insistenti e alla fine, dopo magari dieci giorni in giro per la Sicilia, ti ritrovavi a riconsegnare, all’autonoleggio dell’aeroporto, una macchina da buttare con tutte le spie del cruscotto accese e un tanfo diffuso delle sue immancabili Celtique, ammorbante e indelebile.
Sulle Celtique ci sarebbe da scrivere un libro. Sigarette francesi, corte, obese e naturalmente senza filtro, oltre a essere riconoscibili a dieci chilometri di distanza dalla puzza mefitica, avevano la tipica caratteristica di finire nei luoghi e nei momenti più improbabili. La seconda caratteristica è che erano pressoché introvabili. A volte ma purtroppo non spesso, una rete solidale con chi era in giro per il mondo con lui, ci faceva trovare – al nostro arrivo in posti solitamente improbabili – una stecca di Celtique, altrimenti nei momenti più strani, finita la sua scorta in valigia, si finiva in qualche negozio gestito da sedicenti tabaccai, stranamente aperto a ore assurde, per assistere da spettatore impegnato e assonnato alle sue pesantissime rimostranze di cliente indignato nei confronti di un esercizio commerciale irresponsabile per il fatto di non avere un tipo di sigarette che in Italia credo a quei tempi fumassero in tutto tre persone.
Quelli di noi che più spesso si trovavano in queste circostanze – Sergio Rovasio, Maurizio Turco, Antonio Cerrone, Gianfranco Dell’Alba, Roberto Giachetti e qualche altro avventuriero – ormai sapevano che occorreva avere un paio di pacchetti di riserva, accuratamente nascosti per le vere emergenze. Quando, sicuramente per grazia divina, quelle sigarette infernali vennero messe fuori legge, lui passò al toscano o meglio al toscanello credo alla grappa e se non era alla grappa era un problema – un’altra sua caratteristica classica è che doveva rompere le balle su tutto e comunque – ma a quei tempi io ero già altrove. L’ultimo pacchetto di Celtique – incredibilmente sopravvissuto – lo vidi, dopo anni e anni, sulla sua bara a Teramo nell’aula del Consiglio comunale, messo lì dalla mano di qualcuno che evidentemente sapeva bene quel che faceva.
Storie e immagini si affollano e si accavallano mentre scrivo. Le facce, per esempio, di quattro anziani pensionati, sempre in quel viaggio in Sicilia credo anche se in Sicilia ci siamo tornati spesso insieme. Erano seduti, sotto un sole cocente, su una panchina nella piazza deserta e desolata di un piccolissimo paese rintanato nel centro dell’isola. Arriviamo al solito a una velocità da galera, lui decide di chiedere la strada – a quei tempi di gps non si parlava nemmeno – ai quattro pensionati in panchina. Io inchiodo davanti a loro con stridio di gomme vario – era, ricordo bene, una Alfa rosso imbarazzante che ha contribuito anche lei alla scena generale – lui scende, piegando il suo metro e novanta per centoventi chili sui quattro terrorizzati, chiede qualcosa, loro lo guardano, non rispondono, lui risale, io riparto e nello specchietto vedo le loro facce a mascella calata che ci guardano stravolti. Non lo sapevano, dice. Forse se gli davi tempo magari, dico. Non capisci un cazzo, dice, che poi era il suo consueto modo per chiudere i discorsi quando sapeva di avere torto. Mi è sempre piaciuto immaginare i quattro vecchietti quella sera al bar cosa possono avere raccontato.
Mentre scrivo queste cose che in fondo contano veramente poco rispetto a chi era e a quello che ha fatto, non so neppure se possano minimamente interessare qui qualcuno, ma con lui va così. Ricordi improvvisamente una cosa e appena la metti a fuoco ne arrivavano altre due e poi altre quattro e ti rendi conto che si potrebbe proseguire all’infinito. Meglio chiuderla qui. Sei anni.
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