Non è difficile immaginare la scena. Lui è a casa sua fra spartiti e libri. Il pianoforte in un angolo e lui magari sta provando per fare calare la tensione di giorni di occupazione russa. A un certo punto sente passi di parecchie persone sulle scale. Soldati russi accompagnati da alcuni ucraini e tramite questi ultimi gli ordinano di andare con loro per dirigere il concerto che celebra l’annessione, con le fosse comuni ancora aperte e riempite della sua gente.
Lui dice subito di no. La sua professione, la sua arte non celebrano questa mostruosità. Le cose si confondono a questo punto. Viene strattonato? Picchiato? Poi un colpo di pistola alla testa. Qualche fonte sostiene persino che sparano attraverso la porta.
Yuriy Kerpatenko, direttore della Filarmonica di Kherson, muore così. Solo, “solo”, un musicista che muore perché i regimi, tutti i regimi, vogliono l’arte ma solo quella che li celebri. Muore così perché un uomo è un uomo se ha dei principi per i quali non è disposto a rinunciare. Costi quel che costi.
Sarebbe bello che il mondo della musica si mobilitasse per un grande concerto internazionale dedicato a lui che sovrasti per un momento il rumore delle armi. Uccidere un musicista così conferma che non si può accettare una cultura come quella di Putin dove l’omicidio è consueto come prassi nei confronti di chi dissente.
