Logbook 266 – Lettera di un laico al Vescovo di San Marino-Montefeltro

Non è la prima volta, anzi, che mi si chiede da parte del mondo cattolico una riflessione da laico – da credente in altro che una religione, forse – e questa volta me lo chiede il Vescovo di San Marino-Montefeltro, che conosco da ormai tanto tempo.

La riflessione è sulla sua lettera di Pasqua e con i miei limiti, preferendo la forma epistolare visto il terreno a me estraneo, ho provato a rispondere all’invito – che so rivolto con affetto e stima – per come ho potuto.


Caro don Andrea,

il tempo e il rispetto reciproco – che, se me lo consente, definirei anche un’amicizia – mi aiutano a utilizzare una forma meno formale su un tema che non mi è familiare ma che provo ad approfondire nel rispetto del Suo invito e dei lettori che ci leggono. Partiamo dal pane spezzato cioè dal titolo. Il pane che unisce, il pane che è civiltà, che accompagna nella bisaccia il nomade Abele, che è frutto delle fatiche di Caino, perché il pane nasce con l’uomo, cotto magari senza lievito sulla pietra rovente per il sole o per il fuoco. Il pane è al centro della Messa e questo lo approfondisce bene la sua Pastorale, riportando al centro elementi che l’abitudine tende a fare diventare invisibili. Il pane è famiglia, è amicizia ma è anche ospitalità e socialità. Una volta, in montagna, il pane si faceva una volta l’anno – lo ricordano ancora bene le antiche tradizioni valdostane – e coinvolgeva tutto il villaggio dai bambini agli anziani.

La Pasqua è pane, è cena in comune ma è anche – Lei scrive – una educazione alla speranza di un mondo nuovo. Mai come in questi giorni in cui il futuro è buio, come sappiamo entrambi, la speranza è determinante. L’inferno in fondo è semplicemente lo stato di chi ha cessato di sperare.

Sono tempi bui. La pandemia poi l’invasione dell’Ucraina e le carceri dei regimi di tutto il pianeta piene di persone per bene che credono nella propria libertà di fede o di pensiero. E la fede – e la vita, per chi la fede non ha – non può esistere senza la gioia perché se la vita è sofferenza, soltanto sofferenza, perde il suo senso. Dobbiamo sperare e dare corpo alla speranza, soprattutto quando tutto sembra buio e la tempesta è prossima. Le tempeste però passano e ci lasciano più stanchi certo ma anche più maturi, perché è nelle tempeste della vita che si cresce.

Al centro della Sua lettera, la pietra di volta che regge tutto è la Messa come luogo in cui si viene educati “all’umiltà, al perdono e al saper ricominciare” come Lei scrive. Forse sarebbe anche importante non considerare – me lo consenta per la franchezza che mi chiede – tutto ciò una forma di “lavanderia dell’anima” in cui si fanno le puli-

zie per ripartire come prima fino alla prossima tornata in lavanderia. Dio perdona – è il suo mestiere, si potrebbe dire sorridendoci – ma chi non ha fede raramente perdona se stesso anche se ne sente forte la necessità.

Troppo facile e troppo pericolosa la mentalità del “tanto poi mi confesso, mi pento e ricomincio a fare quello per cui mi sono pentito” anche se ovviamente non è così sempre e per tutti. Il perdono è cosa seria e pesante. La rivoluzione cristiana nasce lì, contro il Dio della Vendetta del Vecchio Testamento. Occhio per occhio, “uccidi Isacco per sacrificarlo a me”, statue di sale, piogge di fuoco, i nemici annegati nel Mar Rosso, insomma un Dio feroce che viene contrastato e battuto da un Dio cristiano del perdono, del sorriso, un Dio che diventa umano proprio attraverso la sofferenza ma soprattutto il sorriso. Cristo sa ridere – nel Vangelo lo si intuisce – e Francesco d’Assisi che era Francesco d’Assisi lo sa e lo onora a suo modo.

Altro aspetto che mi colpisce della Sua lettera è che “uno dei mali che affligge la nostra comunità è una sorta di anemia biblica”. Il fatto che non si conoscano le Scritture, che i libri stiano sempre più sparendo dalla quotidianità di tanta gente – non solo giovani – ipnotizzati da display disumani che disumanizzano, è da considerare e approfondire. Chi ha trascorso anni duri e bellissimi fra le pergamene romane del IX e del X secolo, chi ha passato ore e ore in biblioteche dove i codici tramandavano pensieri di secoli e secoli prima, sa come siano importanti i testi, anche se letti e riletti. Biblioteche dunque e tornano in mente la Vaticana dei papi, l’Angelica degli agostiniani, la Casanatense dei domenicani (Domini canes, vecchio scherzo medievale dei frati degli altri ordini), la Malatestiana, la Laurenziana, la Capitolare di Verona e tutte, tutte le altre – l’Italia ha le più belle biblioteche del mondo – che raccolgono libri oltre il tempo, oltre lo spazio, che sono assolutamente necessarie per nutrire vita e cervello.

E poi per finire – ma è anche l’avvio, poiché è in copertina – Caravaggio e il suo Cristo imberbe, giovane e irriconoscibile altrimenti i discepoli di Emmaus capirebbero chi è. L’episodio è fra i più forti dei Vangeli, raccontato da Luca con sapienza quasi cinematografica. I due viandanti che non lo riconoscono pur essendone discepoli, la strada e l’imbrunire, il parlare fra loro e poi quel «“Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro» che urla la sua attualità. Si fa sera e devi aiutare chi resta solo per strada e questa non è solo religione ma umanità perché è linguaggio che tutte le persone di buona volontà – tanto per citare una categoria da non sottovalutare mai – capiscono e praticano. Il cerchio dunque si apre e si chiude così, sulla strada di Emmaus.

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