Logbook 297 – L’albero

Ottanta studentesse sono state avvelenate e ricoverate in ospedale nella provincia di Sar-e-Pul, nel nord dell’Afghanistan, lanciano le agenzie e, per chi ama quella terra e quella gente, ogni volta che esce una notizia del genere è una pugnalata nel cuore. Pesa sul cuore anche citare, per l’ennesima volta, Piero Calamandrei quando dice che il fascismo – ma qualsiasi regime peraltro – è la negazione della persona umana ma invece siamo ancora qui mentre la lotta fra Jekyll e Hide non si placa.

Chi è stato in Afghanistan, nonostante i momenti difficili, non può non amarlo. Dieci anni fa, la gente che aveva conosciuto i talebani e che non pensava di ritrovarli nuovamente al potere, era gente serena, tranquilla, pur fra le mille difficoltà. Herat era la città di Alessandro Magno e i suoi monumenti lo celebravano all’interno di due millenni. Il controllo dell’Afganistan occidentale era affidato da ISAF al Comando italiano e per molti anni l’Italia ha confinato di fatto con l’Iran, dove oltre confine si tentava di realizzare un ordigno atomico.
Ci sono state vite umane, molte, perse in quella terra per una ragione che era quella di evitare che tornasse la barbarie, l’integralismo folle e feroce, poi tutto si è dissolto come se quasi venti anni non fossero serviti a nulla. Quella fuga disordinata da Kabul è stato il fallimento totale della politica estera americana, la folle illusione di Putin che l’Occidente fosse in ginocchio, la conferma cinese – l’unica Superpotenza che confina direttamente con l’Afghanistan, cosa non del tutto marginale – che l’attesa e il lavoro sotterraneo possono pagare.

Dell’Afghanistan non si parla purtroppo più in Italia e questo è gravissimo perchè il silenzio in questi casi è connivenza. Quella gente non lo merita perchè la cultura e la civiltà afgana sono fatte di generosità, di umanità, di ragione e di cuore. L’augurio è quello che gli alberi tornino a dare frutti per tutti, come racconta una vecchissima favola di quelle parti.

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