Logbook 279 – Sette giorni all’asta

L’idea era folle ma Vittorio era così. Era il 1977 e il Teatro Tenda si trovava a pochi passi dalla casa di Anna, il biglietto costava poco e dunque decidemmo di andarci e passare lì parecchio tempo di quella settimana.

Era difficile muoversi nel grande tendone sul Tevere, dove dall’altro capo del ponte lo Stadio Olimpico sonnecchiava perplesso, abituato a ben altro. Lui era in un momento – e lo disse più volte in quei giorni di teatro e cinema ma soprattutto di lui anzi solo di lui – in cui voleva scrollarsi di dosso anni di lavoro felici e non felici. Uno dei momenti memorabili di quei giorni era quando gli capitava di annunciare certi film orribili che si vergognava come un ladro di aver fatto. La sua straordinaria autoironia in tal caso aiutava lui e tutti noi che vagavamo come mandrie di pubblico – sedie non ricordo ci fossero – per l’enorme tendone.

Sette giorni in cui giorno e notte – esperienza che poi anni dopo avrei più volte rivissuto in tv con Marco, sotto certi aspetti simili – Vittorio stava sul palco o nella sua roulotte mentre andavano avanti filmati, film e amici teatranti coinvolti in quella sorta di auto da fè, di incendio di capodanno dove bruciava l’intero solaio per tornare libero. Con Anna entravamo, uscivamo, rientravamo – ci saremmo sposati due anni dopo alla fine degli anni 70 – guardavamo, ascoltavamo, parlavamo con gente mai vista e mai più rivista, come ci conoscessimo da sempre.

Vittorio in quei giorni era vicino ma lontanissimo, dentro una sua bolla invisibile anche se cercava quanto più possibile il contatto con la gente in quel teatro. Era solo con se stesso o almeno così sembrava mentre sul palco era leonino, gigantesco, sicuro. Lo conobbi molti anni dopo e ci frequentammo per un lungo periodo. A quei tempi Jacopo era un bambino biondo e vivevano in residence a due passi da Ponte Milvio, non ancora lucchettato da adolescenti dediti ai ferramenta. La sua casa dietro Piazza del Popolo non era ancora pronta, non era mai pronta, e Diletta – una delle donne migliori che mi sia capitato di conoscere – cercava di risolvere problemi complessi che può comprendere solo chi vuole ristrutturare una casa Roma. 

Io poi partii per lavoro. La mia maledetta natura forse da marinaio mentale che lascia un porto, se può saluta, e naviga altrove mentre gli ormeggi, gli amici, gli affetti scompaiono da poppa mentre controlli la scia che lascia la barca. Fuor di metafora, ci perdemmo di vista anche se avevo notizie non belle.

Il cane nero lo assaliva, lo lasciava e poi tornava fino a distruggere quella vitalità che esplodeva come fuochi artificiali infiniti sulle assi del Teatro Tenda, anche se oggi a ben vedere, in fondo alla scena, nel buio quell’ombra del cane nero forse si poteva intuire, forse laggiù – presente ma invisibile per tutti come nelle rappresentazioni medievali – c’era anche quel cane nero su palco.

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